ESTRATTO DELLA GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE DELL’ANNO 2012 IN MATERIA DI PATROCINIO A SPESE DELLO STATO
Per conoscere lo stato dell’evoluzione giurisprudenziale in Italia non si può che ricondursi all’elaborazione della Consulta ed alla correlata attualizzazione della lettura costituzionale dei singoli istituti.
Per questa ragione, proprio con riferimento alla materia del Patrocinio a spese dello Stato che oggetto della mission di Art. 24 Cost., pare utile pubblicare un estratto della relazione 2013 dell’attività della Corte Costituzionale in materia di gratuito patrocinio.
Il lavoro è in sè già pregevole proprio per la sua fonte autentitca: l’estensore della relazione integrale è infatti il medesimo Centro Studi della Consulta e la sua opera è utile per tutti coloro che vogliono trovare riassunta e sintetizzata la produzione giurisprudenziale del Giudice delle leggi.
Buona lettura.
David Del Santo
Il patrocinio a spese dello Stato e le spese di giustizia
Con la sentenza n. 101, è stata dichiarata non fondata una questione di legittimità costituzionale – sollevata per la pretesa violazione del principio di eguaglianza – dell’art. 114 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), nella parte in cui stabilisce che la revoca del decreto di ammissione al patrocinio a spese dello Stato, disposta ai sensi dell’art. 112, comma 1, lettera c) – vale a dire, per la mancata produzione, da parte del cittadino di Stati non appartenenti all’Unione europea sottoposto a limitazioni della libertà personale, della prescritta certificazione dell’autorità consolare relativa ai redditi prodotti all’estero – ha effetto solo dalla scadenza del termine accordato dall’art. 94, comma 3, del testo unico per tale produzione documentale (venti giorni dalla data di presentazione dell’istanza di ammissione al patrocinio). In sostanza, il rimettente lamentava una disparità di trattamento, a suo giudizio irragionevole, tra soggetti in stato di libertà e soggetti sottoposti a limitazioni della libertà personale: i primi, qualora non presentino, in allegato alla richiesta di ammissione al patrocinio, la certificazione consolare o la dichiarazione sostitutiva prevista dall’art. 94, comma 2, del testo unico, sono, infatti, esclusi sin dall’inizio da ogni beneficio, essendo detto onere di documentazione previsto a pena di inammissibilità dell’istanza; di contro, il soggetto ristretto, che non depositi detti documenti nel termine a tal fine previsto, può comunque fruire del patrocinio a spese dello Stato per il periodo corrispondente al decorso di tale termine. La Corte ha osservato al riguardo come le due situazioni poste a raffronto dal giudice a quo siano evidentemente eterogenee tra loro. La previsione di una disciplina di maggior favore per il soggetto detenuto, agli arresti domiciliari o internato per l’esecuzione di misure di sicurezza si giustifica – come lo stesso rimettente, del resto, riconosce – in ragione delle limitazioni alla libertà di movimento cui l’interessato è sottoposto: limitazioni che rendono più problematico, che non per il soggetto libero, l’assolvimento dell’onere di produrre la certificazione dell’autorità consolare relativa ai redditi prodotti all’estero. Assodato, dunque, che la diversità di situazioni giustifica una diversità di disciplina, il “quantum” di tale diversità rappresenta, poi, materia di discrezionalità legislativa. Nella specie, il legislatore – proprio in considerazione delle rimarcate difficoltà cui il soggetto detenuto va incontro – ha ritenuto opportuno non soltanto accordare a costui un termine per la produzione della certificazione consolare, del quale il soggetto libero non fruisce, ma anche di prevedere che l’eventuale revoca del provvedimento di ammissione al beneficio – conseguente alla mancata presentazione della certificazione nel termine – non operi con effetto ex tunc, ma solo a partire dalla scadenza del termine medesimo. Tale ultima circostanza, d’altra parte, non può ritenersi irrazionale o arbitraria, anche in una cornice sistematica. Invero, l’efficacia retroattiva della revoca dell’ammissione al patrocinio è attualmente prevista (art. 114, comma 2, del testo unico) esclusivamente in rapporto alle fattispecie di revoca cosiddetta “sostanziale”: vale a dire, nelle ipotesi di avvenuto accertamento, all’esito di opportune indagini, della mancanza (originaria o sopravvenuta) delle condizioni reddituali per la fruizione del beneficio. Di contro – osserva la Corte – nell’ipotesi alla quale si riferiscono le censure del rimettente, si è di fronte a una revoca per ragioni “formali”, legata, cioè, all’omessa produzione di un documento da parte dello straniero detenuto, con la conseguenza che non risulta evocabile – a sostegno dell’adozione del regime di retroattività della revoca, auspicato dal rimettente – l’esigenza di impedire che il soggetto che si è comportato fraudolentemente possa giovarsi, anche solo in parte, degli effetti dell’ammissione.
Con l’ordinanza n. 155, la Corte ha dichiarato manifestamente inammissibile una questione di legittimità costituzionale già delibata e risolta con la precedente sentenza n. 139 del 2010. Quest’ultima pronuncia aveva già dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 76, comma 4-bis, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), nella parte in cui, stabilendo che per i soggetti già condannati con sentenza definitiva per i reati indicati nella stessa norma il reddito si ritiene superiore ai limiti previsti per l’ammissione al patrocino a spese dello Stato, non ammette la prova contraria. Nel nuovo incidente di costituzionalità, la Corte è stata investita del medesimo oggetto: precisamente, del dubbio di compatibilità costituzionale del citato art. 76, comma 4-bis, «nella parte in cui impone che il reddito degli imputati», già condannati con sentenza definitiva per il reato previsto dall’art. 73, nelle ipotesi aggravate ai sensi dell’art. 80 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti), «sia da ritenersi superiore ai limiti previsti per essere ammessi al gratuito patrocinio». La Corte richiama i passaggi salienti della precedente sentenza n. 139 del 2010, evidenziando come, in essa, il vulnus costituzionale era stato ravvisato (e dichiarato) con riferimento al carattere assoluto della presunzione contemplata dalla norma, eliminato con l’introduzione, costituzionalmente obbligata, della prova contraria: con la conseguenza che, pur non eliminandosi dall’ordinamento la presunzione prevista dal legislatore (che continua dunque ad implicare una inversione dell’onere di documentare la ricorrenza dei presupposti reddituali per l’accesso al patrocinio) spetterà al richiedente dimostrare, con allegazioni adeguate, il suo stato di “non abbienza”, e spetterà al giudice verificare l’attendibilità di tali allegazioni, avvalendosi di ogni necessario strumento di indagine». L’avere ignorato, da parte del giudice rimettente, i contenuti della precedente pronuncia n. 139 del 2010 − che, con la declaratoria di illegittimità costituzionale, ha determinato un assetto dell’art. 76, comma 4-bis, del d.P.R. n. 115 del 2002 immune dalle censure formulate dal giudice a quo − determina la manifesta inammissibilità della reiterata questione.
L’ordinanza n. 270 ha giudicato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 130 del d.P.R. n. 115 del 2002, impugnato, in riferimento agli artt. 3, 24, secondo e terzo comma, 53, 111, primo comma, e 117, primo comma, Cost., nella parte in cui prevede che, in caso di ammissione al beneficio della difesa a spese dello Stato del non abbiente in controversie in materia civile, il giudice, allorché provvede alla liquidazione dei compensi spettanti al difensore, deve tenere conto che questi sono ridotti della metà. Per quanto riguarda l’asserita disparità di trattamento fra avvocati in dipendenza della sede giurisdizionale ove esercitano il loro ministero, la Corte ha confermato che, «per un verso, “la intrinseca diversità dei modelli del processo civile e di quello penale non consente alcuna comparazione” fra le discipline ad essi applicabili (ordinanza. n. 350 del 2005)» e, per altro verso, «la “diversità di disciplina fra la liquidazione degli onorari e dei compensi nel processo civile e nel processo penale trova fondamento nella diversità delle situazioni comparate” (ordinanza n. 201 del 2006 che, a sua volta, riprende l’ordinanza n. 350 del 2005)». Inoltre, «è di tutta evidenza che nel rimarcarsi la diversità fra “gli interessi civili” e le “situazioni tutelate che sorgono per effetto dell’esercizio della azione penale” non si vuole affatto alludere ad una gerarchia di valori fra gli uni e le altre, ma esclusivamente alla indubbia distinzione fenomenica esistente fra di loro, tale da escludere una valida comparazione fra istituti che concernano ora gli uni ora le altre». Si è altresì esclusa una disparità di trattamento fra avvocati parimenti operanti di fronte a organi della giurisdizione non penale nell’ipotesi in cui la liquidazione giudiziale concerna difese apprestate nei confronti di soggetti ammessi al patrocinio a spese dello Stato. Infatti, «la diversa disciplina applicabile alle distinte fattispecie, una delle quali, quella relativa ai non abbienti, è connotata da “peculiari connotati pubblicistici” (ordinanza n. 387 del 2004) […] non riscontrabili nell’altra», non esula «rispetto al margine di ampia discrezionalità di cui il legislatore gode nel dettare le norme processuali (da ultimo ordinanza n. 26 del 2012), nel cui novero sono comprese anche quelle in materia di spese di giustizia (ordinanza n. 446 del 2007)». In merito alla doglianza riguardante «una più ridotta platea di professionisti disposta a difendere in sede civile, amministrativa, tributaria o contabile, data la minore rimuneratività di tale attività», la Corte non ha mancato di rilevare che si è al cospetto di «un – peraltro solo postulato – inconveniente di fatto non direttamente riconducibile alla applicazione della disposizione censurata ma, semmai, cagionato da scelte professionali del ceto forense». Più in generale, la giurisprudenza costituzionale ha già escluso «la illegittimità costituzionale di disposizioni normative che impongono dei limiti nella scelta del difensore – ora attraverso la individuazione di speciali elenchi da cui attingere (ordinanza n. 387 del 2004; ordinanza n. 374 del 2003) ora determinando al medesimo scopo, ambiti territoriali di riferimento (sentenza n. 394 del 2000) – ogniqualvolta ne sia comunque assicurata una ampia possibilità di scelta». In relazione alla dedotta violazione dell’art. 53 Cost., i Giudici hanno negato che, «ove sia pronunziata condanna alle spese di giudizio a carico della controparte del soggetto ammesso al beneficio del patrocinio a spese dello Stato, vi sia una iniusta locupletatio dell’Erario», poiché la somma che, «ai sensi dell’art. 133 d.lgs. n. 115 del 2002, va rifusa in favore dello Stato deve coincidere con quella che lo Stato liquida al difensore del soggetto non abbiente». Infine, si è osservato che «nel meccanismo attraverso il quale si procede alla liquidazione dei compensi» de quibus, «e che comporta l’abbattimento nella misura della metà della somma risultante in base alle tariffe professionali, non è dato riscontrare alcuna forma di prelievo tributario, trattandosi semplicemente di una, parzialmente diversa, modalità di determinazione dei compensi medesimi – giustificata (…) dalla diversità, rispetto a quelli penali, dei procedimenti giurisdizionali cui si riferisce – tale da condurre ad un risultato economicamente inferiore rispetto a quello cui si sarebbe giunti applicando il criterio ordinario».
Il patrocinio per i non abbienti stranieri
La sentenza n. 101 in tema di patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti, ha dichiarato non fondata la questione relativa all’art. 114 del d.P.R. n. 115 del 2002, recante il Testo unico delle disposizioni in materia di spese di giustizia, sollevata, in riferimento all’art. 3 Cost. L’art. 90 di tale testo unico assicura allo straniero (oltre che all’apolide residente nello Stato) il trattamento previsto per il cittadino italiano, conformemente alla natura fondamentale della posizione soggettiva di cui si discute, rientrante nella più generale garanzia del diritto di difesa. Detta equiparazione non esclude, peraltro, che la disciplina della materia rechi talune previsioni differenziate in correlazione alla particolare posizione dello straniero, segnatamente per quanto attiene alla documentazione da allegare all’istanza di ammissione al beneficio. La normativa vigente prefigura una marcata semplificazione del sistema di accesso al patrocinio per i non abbienti, basata sulla valorizzazione della dichiarazione sostitutiva di certificazione (cosiddetta autocertificazione), anche e particolarmente per quanto attiene alla sussistenza del requisito reddituale. Per i redditi prodotti all’estero, i cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea sono tenuti, nondimeno, a corredare l’istanza con una certificazione dell’autorità consolare competente, che attesti «la veridicità di quanto in essa indicato» (art. 79, co. 2, del testo unico). La previsione di tale produzione documentale di supporto, in deroga al criterio generale della valorizzazione dei poteri certificatori in capo al privato, si giustifica a fronte delle difficoltà di verificare l’esistenza e l’entità dei redditi prodotti all’estero dai soggetti considerati.
La sentenza n. 102 ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 114 del d.P.R. n. 115 del 2002, recante il Testo unico delle disposizioni in materia di spese di giustizia, nella parte in cui stabilisce che la revoca del decreto di ammissione al patrocinio a spese dello Stato per la mancata produzione, da parte del cittadino di Stati non appartenenti all’Unione europea sottoposto a limitazioni della libertà personale, della prescritta certificazione dell’autorità consolare relativa ai redditi prodotti all’estero, ha effetto solo dalla scadenza del termine accordato dall’art. 94, comma 3, del testo unico, per violazione dell’art. 3 Cost., sotto il profilo della irragionevole disparità di trattamento tra soggetti in stato di libertà e soggetti sottoposti a limitazioni della libertà personale. Al riguardo va infatti osservato come le due situazioni poste a raffronto dal giudice a quo, per desumerne la violazione del principio di eguaglianza – quella dello straniero libero e quella dello straniero detenuto – siano eterogenee tra loro: la previsione di una disciplina di maggior favore per il soggetto detenuto si giustifica in ragione delle limitazioni alla libertà di movimento cui l’interessato è sottoposto.
ESTRATTO DELLA GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE DELL’ANNO 2012
DALLA RASSEGNA REDATTA A CURA DEL SERVIZIO STUDI DELLA CORTE COSTITUZIONALE
presentata nella Riunione straordinaria della Corte costituzionale del 12 aprile 2013