“La giustizia è come l’aria.
Ti accorgi di quanto è importante quando comincia a mancare.
Io già non mi sento molto bene.”
L’esordio sarebbe stato una fantastica battuta di Groucho Marx, se non fosse così simile a quello che tutti gli italiani cominciano davvero a pensare.
Perché oramai tutti noi – e dico davvero tutti – ne abbiamo la consapevolezza.
Nell’immaginario collettivo degli italiani, l’idea condivisa è che ormai il “sistema giustizia” si chiami così solo di nome, mentre il frutto del suo operato non suona come dovrebbe. Non porta sollievo a chi ha patito un torto, non rimuove i cattivi dalla circolazione, non aiuta a far funzionare le cose, anzi, pare proprio il contrario.
Polizia e dintorni sembrano più dei soggetti bisognosi di solidarietà che capaci di offrirla assieme a sicurezza e garanzie.
Sulla magistratura non si può più dire nulla, dopo che tutto si è consumato nel tritacarne mulinante sull’ottuagenario arcoriamo. Come un immenso magnete ha attratto ogni forza, ogni risorsa, bruciandola senza soluzione e lasciando un paese in cenere inutilmente diviso sulla sorte di qualcuno che nemmeno meritava di essere considerato.
Tutto è mediaticamente iniziato lì, e lì è rimasta imprigionata ogni ragione di legittimità e buon senso.
Nel bene e nel male.
La giustizia, perciò, è solo un un ricordo ottocentesco.
Del resto, a due secoli addietro fanno rinvio pure gli echi che hanno partorito una costituzione concepita sulle macerie di un paese ostaggio della paura postfascista del totalitarismo e del conflitto che se ne era generato.
L’unico pensiero ricorrente era sempre e soltanto il “mai più”, ripetuto all’infinito come una giaculatoria. Non ci si poteva nemmeno chiedere cosa sarebbe successo se la giustizia concepita quale custode della democrazia avesse raggiunto il limite dell’imprigionamento della “democrazia” nei desideri della badante “giustizia”.
E in tutto questo groviglio storico e politico, dove è finito ciò che comunemente viene definito “diritto alla giustizia”? Dove è finito il ruolo del giudice, quale soggetto chiamato a dirimere le controversie fra i cittadini e garante della pace sociale fra i cittadini?
Pare che per queste questioni terrene lo spazio rimasto sia davvero poco.
Pare che i giudici prestino maggiore attenzione a preservare il proprio ruolo nel quadro istituzionale che non ad amministrare quella funzione che, nell’antichità, veniva definita “ars boni et aequi” [arte del buono e dell’equo]: il diritto.
Già: quel diritto che un tempo prendeva le vesti della sacralità, oggi giace in un corridoio di tribunale, ammassato tra centinaia di atti che contengono le nostre istanze e le nostre ragioni, le nostre vite. Quel ruolo istituzionale che sempre era riservato al giurista – “vocatus ad” [chiamato a] dirimere le liti – oggi è un ruolo che pare limitarsi ad una convenzione burocratica nemmeno tanto certa, un gioco delle parti in base al quale al deposito di un atto si avvierà un procedimento, al termine del quale – quando esso sarà: e senza pretese, sia chiaro – si potrà ottenere una decisione che, forse, non risolve nemmeno la lite e comunque, per servire davvero, doveva giungere in tempi più brevi, a costi pure minori e per certo con minore aggravio emotivo per le parti. Ma, d’altronde, perché lamentarsi: siamo riusciti a cristallizzare l’idea del “mai più”, siamo riusciti a costruire un assetto istituzionale complesso nel quale si osserva la regola della nominale divisione dei poteri (più adatta ad un trattato che non alla reale dinamica della vita delle istituzioni) e nel quale ciascuna nicchia conserva un proprio spazio di manovra, dovendo tenere un occhio aperto sul vicino “di casa” – rectius: “di potere”.
E in tutto questo ginepraio, dove è finita la risposta alle necessità quotidiane del cittadino? Non lo si riesce a capire. Infatti, non si riesce più a comprendere come mai i tempi della giustizia siano tanto lunghi, mentre i tempi (e le esigenze) dell’economia e della vita reale siano tanto brevi; non si riesce perciò a capire come un cittadino possa pensare di adire un tribunale, a fronte di costi di accesso alla giustizia che, se non sono impeditivi (di un diritto costituzionalmente garantito), sono certamente (più che) deflattivi disincentivando ogni accesso alla difesa; non si riesce poi a capire perché un privato debba osservare dei doveri stringenti nello svolgimento di determinate attività, mentre il sistema giudiziario, potenzialmente autorizzato a violare le nostre più intime libertà, possa agevolmente permettersi di sbagliare nello svolgimento della sua funzione, scaricando la responsabilità sullo Stato e, per esteso, sul contribuente, avvalendosi, peraltro, di norme che sfiorano la presa per i fondelli della volontà referendaria.
Ecco cosa il cittadino chiede allo Stato e alla giustizia: efficienze, efficacia, imparzialità, trasparenza, equità, professionalità. A poco interessano le liti tra poteri dello Stato se, al momento del bisogno, il cittadino viene invitato ad accomodarsi per qualche anno, a volte qualche lustro, nei corridoi del tribunale per ottenere una risposta che non serve più perché è tardiva. E ancor meno importa sapere che ormai si sia riusciti a “mettere una pietra” sopra al passato che tanto temiamo se, di fatto, al giorno d’oggi, i diritti vengono nuovamente e sostanzialmente calpestati con irriverenza da un assetto di potere autoreferenziale (la politica ci ha ben messo del suo).
La giustizia di oggi viene allora letta come utile solo a se stessa, perché non viene più sentita come utile al cittadino.
Logica conseguenza di tutto questo é che l’effettiva capacità di operare del sistema sta scemando di giorno in giorno, avvicinandosi sempre più al punto di stallo: quando ogni attività servirà solo ad alimentare la macchina burocratica.
E manca poco, davvero poco.
A quel punto, senza l’aria, il paese muore.
Addio Italia.
Luca Cadamuro