SI PARLA DOVUNQUE DI RIFORMA DELLA GIUSTIZIA: DA DOVE PARTIRE PER FARLA?
Se aprite un qualunque giornale o blog di attualità avete due certezze: trovare un articolo sul medioriente ed uno sulle condizioni (sempre miserabonde) della Giustizia italiana.
Tutti ne parlano, tutti hanno la certezza che ci sia un aspetto prioritario, quello di cui loro appunto parlano), tutti propongono la soluzione perfetta.
Pure il Premier si è cimentato in questa sfida e ci ha propinato una sarabanda di meccanismi che dovrebbero risolvere tutto. Boh!
Personalmente credo che prima di leggere le singole e fantasiose proposte dei vari stregoni, con formula magica annessa, sia opportuno farsi un’idea complessiva della questione. Ad aiutare una prima comprensione della vicenda può essere utile una ricostruzione di ciò che è la realtà davanti ai nostri occhi.
Da questa necessità nasce il titolo di questo post che vuole ricordare il discorso che ogni anno Potus (President of United States) fa agli americani per fare il punto della situazione e spiegare come intende agire in futuro. Ebbene, per decidere il futuro, prima di annunciarlo, forse è utile andare a verificare cosa accade oggi.
Per affrontare questa sfida, perchè di sicuro lo è, abbiamo cercato di informarci ed abbiamo trovato un breve ed interessante elaborato di un Senatore di questa strapazzata Repubblica (non lo conosciamo, non siamo suoi fans, non è propaganda). Pare dare alcuni spunti non scontati ed utili riflessioni sul da farsi (affrontando anche il concetto di giustizia di classe).
Andando al di là di ogni partigianeria politica, ve lo proponiamo come punto di partenza per discuterne assieme.
Diteci cosa ne pensate.
Andrè Moreau
Associazione Art. 24 Cost.
RELAZIONE SULLA GIUSTIZIA, SVOLTA IL 28 GIUGNO 2014
DAL SENATORE BUEMI AL WORKSHOP DEL PSI TENUTOSI A VITERBOLa riforma della giustizia in Italia passa per l’abbattimento di alcuni feticci, dinanzi ai quali il pensiero unico di questi anni si è inchinato.
Il primo è l’obbligatorietà dell’azione penale: nella proposta di commissione d’inchiesta che è stata presentata in Senato , tra i primi punti critici su cui i socialisti chiedono di far luce vi sono i poteri delle procure di decidere – ciascuna per suo conto – le priorità dei ruoli d’udienza. Questo potere, quando si cumula con la valutazione di probabile prescrizione del reato, nei fatti rende facoltativa l’azione penale in moltissimi casi: ma ciò senza una valutazione a monte di maggiore offensività dei reati in un dato momento storico.
Quel che è peggio è che, nel nostro modo all’italiana, si sancisce una giustizia di classe, in cui chi si può permettere un avvocato gioca sui rinvii ed arriva a precostituirsi quella possibilità arrivando a ridosso della prescrizione. Come reagisce la componente più retriva della nostra maggioranza? Prefigurando l’allungamento o la sospensione dei termini di prescrizione: proprio l’opposto di un sistema di termini processuali stringenti, che non si presti alle tattiche defatigatorie di difese pagate non per difendersi nel processo, ma dal processo.
In tutto questo, il ceto magistratuale è solo la vittima di questa giustizia di classe? Vorrebbe perseguire il criminale economico e si ritrova in mano un pugno di spacciatori extracomunitari? Non credetelo: le commistioni più improprie nascono all’ombra di questa finzione, l’obbligatorietà che tale non è. Potere senza responsabilità, ecco che cosa ne nasce: quando un procuratore può decidere se vale la pena mandare in udienza un caso a rischio prescrizione, quanto ha contribuito lui stesso a quel ritardo, con la sua insipienza, con prassi lassiste o con incrostazioni gestionali? Il messaggio che ci proviene dalla controversia milanese tra Bruti Liberati e Robledo, su questo punto, è illuminante, soprattutto per il suo impatto sull’opinione pubblica. Tocca a noi saper indicare le soluzioni in termini di abbattimento del feticcio: nella nostra condizione di ordinamento ad elevata componente professionale, nell’amministrazione della giustizia, ciò significa uniformarsi a quei sistemi dove è il Parlamento a dettare le linee guida, anno per anno, sui reati di maggiore allarme sociale verso i quali rivolgere prioritariamente le risorse investigative e processuali (non potendosi trasporre, da noi, ciò che avviene dove la valutazione di maggiore allarme sociale la fanno i cittadini eleggendo i giudici). In prospettiva, va accentuato il sistema di separazione delle funzioni tra magistratura requirente e magistratura giudicante: ciò si può fare, anzitutto, irrigidendo il passaggio tra le sue funzioni ben oltre il flebile tentativo operato nella XV legislatura da Mastella; ma, soprattutto, ciò si può e si deve fare, come da noi proposto con la revisione del titolo IV, precisando che il requisito di indipendenza è assoluto per il magistrato giudicante, mentre per quello requirente esso va contemperato con le esigenze di organizzazione del lavoro dell’ufficio del pubblico ministero.
L’allarme sociale spesso – soprattutto se male incalanato nell’attività politica – spinge a cercare di segnare una cesura netta mediante nuove leggi, invece di prassi comportamentali più pulite sul piano morale e più corrette sul piano amministrativo. In sede emendativa, sul disegno di legge Grasso contro la corruzione, i socialisti non si sono sottratti all’esigenza di dare maggiori poteri all’Autorità nazionale anticorruzione, mettendola in relazione con le misure per la trasparenza delle pubbliche amministrazioni e dei lavori pubblici . Ma dev’essere chiaro che, se si vuole andare oltre e toccare i reati esistenti, non si può vivere sotto l’incubo dell’effetto di abolitio criminis che può conseguirne: oltretutto, questo rischio – paventato dall’allora ministro Severino per operare una scelta riduttiva, quella di introdurre la corruzione per l’esercizio della funzione – si è comunque realizzato, visto che i proscioglimenti per prescrizione, di cui si sono giovati personaggi illustri nell’ultimo anno, si sono prodotte proprio a causa dell’ingresso nell’ordinamento della legge Severino. Se quindi si pretende di toccare di nuovo l’articolo 318 del codice penale, lo si faccia operando la scelta coraggiosa – prefigurata già da Salvo Andò negli anni Ottanta – di unificare corruzione e corruzione in un unico reato, che punisca chiunque prenda parte allo scambio tra un atto di una pubblica amministrazione e denaro o altra utilità: lo scambio va perseguito anche quando alcuni indizi presuntivi inducono ad escludere vi sia stata violenza fisica o morale o comunque un ruolo intimidatorio del responsabile del procedimento amministrativo (ad esempio se il responsabile del procedimento amministrativo autorizza, invita o propizia la controparte a rivalersi della corresponsione sulla pubblica amministrazione, sulla fiscalità generale, sulla collettività o su singole categorie di cittadini utenti, mediante l’innalzamento indebito di prezzi o tariffe) .
La giustizia, comunque, è anche sistema delle garanzie: essa funziona non solo quando i colpevoli vengono tratti in carcere, ma anche quando gli innocenti non vi entrano. L’errore giudiziario è componente ineliminabile del sistema, ma da noi non vi è un reale incentivo a comprimerne i dati a percentuali minime. Il deterrente costituito dalla responsabilità disciplinare dei magistrati è gravemente attenuato dal sistema correntizio di elezione del CSM, in riferimento al quale già lunedì prossimo intendo proporre al Senato un disegno di legge costituzionale, volto ad abbandonare l’elezione dei togati e dei laici in favore del sorteggio. Ma anche il deterrente storicamente individuato dall’opinione garantista del nostro Paese – la responsabilità civile dei giudici – è totalmente inefficace, tanto che siamo destinatari di ben due condanne della Corte di giustizia dell’Unione europea: quella di Lussemburgo; quella, cioè, le cui condanne sono assistite dalla possibilità di essere assistite da una riduzione dei conferimenti di risorse economiche dall’Unione europea all’Italia.
Siamo pronti a spiegare ai cittadini che i fondi strutturali per la nostra agricoltura, o i progetti finanziati col piano Coesione, per un anno non avranno soldi perché dobbiamo pagare le conseguenze dell’irresponsabilità dei nostri giudici?
La soluzione non è quella dell’emendamento Pini, che porta ad un’impossibile responsabilità diretta, la quale violerebbe il principio di indipendenza della magistratura; la soluzione è ridare forza alla legge Vassalli, eliminando filtri e fasi processuali sovrabbondanti che hanno reso asfittica la possibilità di chiamare a rispondere per dolo o colpa grave . Soprattutto, la soluzione è raccogliere dalla coscienza collettiva soluzioni di comune buon senso per superare vistose aberrazioni corporative: dall’elaborazione dei saggi nominati dal Quirinale un anno fa è giunta, ad esempio, la richiesta di vincolare al precedente giurisprudenziale quella che finora è la valutazione di fatto e di diritto, propria del giudizio. Il ministro ci ha detto che si rischia il “conformismo giudiziario”? Ma quante volte l’elaborazione libera del giudice è frutto di una scelta consapevole e motivata, e quante invece si alimenta di mera ignoranza del dato normativo? Tanta incertezza del diritto – ad esempio nel campo della giustizia civile che tanto sta a cuore al premier – non dà alcun affidamento alle aziende che dovrebbero venire ad investire in Italia. La sanzione non può essere, dopo anni, il solo capovolgimento della sentenza sbagliata da parte del giudice di secondo o terzo grado: se da quella sentenza sono derivati danni, il professionista giudiziario – che ha consapevolmente ignorato i dati certi della sua professione – deve essere chiamato a risponderne, dopo che lo Stato è stato costretto a rifondere l’utente del sistema giustizia che sia risultato danneggiato.Il Parlamento non può però sottrarsi dall’esercitare la sua funzione legislativa, e deve farlo seguendo le indicazioni delle più moderne elaborazioni di politica giudiziaria. Queste elaborazioni arrivano anzitutto dalle sedi internazionali ed europee: per un più efficace funzionamento della Corte europea dei Diritti dell’Uomo, il Consiglio d’Europa nel 2013 ha varato il Protocollo n. 15 (con tempi più rapidi per l’azione dinanzi alla Corte di Strasburgo) ed il Protocollo n. 16 (con la possibilità, anche per i giudici nazionali, di richiedere alla Corte di Strasburgo pareri consultivi) . Il Governo italiano, pur avendo firmato questi due Protocolli, non li ha ancora portati in Parlamento per la necessaria ratifica, e per questo motivo il Gruppo socialista del Senato ha provveduto direttamente con disegni di legge di iniziativa parlamentare: salutiamo però con interesse la messa all’ordine del giorno, del prossimo Consiglio dei ministri, della presentazione dei disegni di legge governativi di ratifica, senza dimenticare però che i nostri hanno elementi ulteriori in tema di equo indennizzo , che non vanno tralasciati. Il sistema di monetizzazione della sofferenza (introdotto nel nostro ordinamento dalla legge Pinto nel 2001 per l’eccessiva durata dei processi in Italia) va superato con una maggiore velocità dei processi, e non invece generalizzato con l’obolo di otto euro al giorno che qualcuno prefigura per monetizzare le vergogne del nostro sistema penitenziario.
Ovviamente, anche grazie alla battaglia di Marco Pannella, dire Strasburgo vuol dire situazione carceraria, dopo la meritoria sentenza Torreggiani e le conseguenti iniziative assunte anche su impulso del messaggio alle Camere del presidente Napolitano. Tra quelle iniziative vi è la delega per la depenalizzazione, conferita già in questo primo anno di legislatura: essa ha assunto evidenza pubblica soprattutto in riferimento al reato di immigrazione clandestina. Ma non basta: occorre liberare una volta per tutte il sistema processuale da una serie di reati contro il patrimonio, di minore offensività: mandare in udienza, con avvocati e magistrati, il classico furto dallo scaffale del supermercato, quando la foto dell’autovelox basta a far scattare la procedura amministrativa dell’illecito stradale, è gravemente dissociato: sia l’autorità amministrativa (ferma restando l’impugnativa al giudice di pace) ad emanare l’ordinanza/ingiunzione in ambedue i casi, liberando le scrivanie dei giudici per consentire loro di occuparsi dei reati realmente pericolosi per l’ordinata convivenza tra i cittadini. Il corollario è un sistema sanzionatorio amministrativo che possa “travasarsi” in quello penale, ma solo in caso di violazione degli obblighi imposti dal sindaco o dal prefetto.
Ma altre importanti valutazioni di politica criminale vengono sollecitate dall’azione del partito socialista, a partire da un approccio più laico verso la proposta di una disciplina antiproibizionistica in tema di tossicodipendenze e di prostituzione. Ma oltre ad evitare di sovraccaricare il processo penale con accertamenti di fatti minori, che più utilmente possono essere sottoposti a stringente controllo amministrativo, occorre ripensare anche il regime trattamentale nei casi di doverosa detenzione penitenziaria: lavoro in carcere ed esecuzione della misura in colonia sono modalità da ripensare ed aggiornare, in funzione della rieducazione (cui la Costituzione afferma che la sanzione deve tendere); forme non operose di restrizione della libertà personale si traducono in palestre per ulteriori e peggiori carriere delinquenziali.
Eppure dall’Europa ci arrivano segnali eloquenti anche per altre priorità, cui la tecnologia schiude l’accesso nella vita di tutti i giorni: la disciplina della diffamazione è oggetto di un testo (approvato dalla Camera nell’encomiabile intento di eliminare la pena detentiva), che però deve relazionarsi con due variabili non indipendenti. Da un lato il mezzo prescelto: non può più essere quello indicato dalla legge sulla stampa del 1948, ma richiede (come in via emendativa abbiamo cercato di fare in Commissione giustizia, e riproporremo in Assemblea) un’attenta considerazione delle realtà informatiche, di quelle telematiche e persino delle piattaforme sociali (che troppo spesso sono fonte di diffusione incontrollata di odio e razzismo). Dall’altro lato, la tutela del diritto all’oblio: il diritto alla privacy comprende anche il diritto di ciascuno alla protezione e al controllo dei propri dati personali e della circolazione dei medesimi, come sostenuto dalla Corte di giustizia dell’Unione europea nella sentenza 13 maggio 2014 che in tema di indicizzazione e memorizzazione di dati personali ha affermato la responsabilità del gestore del motore di ricerca Google, inducendo questa multinazionale ad un’immediata azione di adempimento. Tale profilo assume, in un’epoca ormai completamente informatizzata, particolare rilievo, visto che i dati personali potenzialmente lesivi dell’immagine – fondati o meno che siano, su un fatto del lontano passato – spesso restano nella disponibilità informatica di professionisti, giornalisti, datori di lavoro, istituzioni pubbliche, banche, compagnie assicurative: deve cessare il malvezzo per cui questi enti, dalla gestione e dal trattamento dei dati personali altrui, traggono motivazioni di permanente diniego di servizi all’utente, ben oltre l’estinzione dell’effetto penale della condanna che può essergli stata inflitta .
Se al semestre europeo il premier si vuole presentare con un sistema giustizia funzionante, e quindi in gradi di dare certezze agli investitori, occorre anzitutto un deciso impulso in direzione dell’unità della Giurisdizione: vi provvede la citata proposta socialista di revisione costituzionale del titolo IV della parte seconda della Costituzione, laddove si prefigura un unico CSM ed una struttura dei giudici speciali come sezioni specializzate dell’unica carriera magistratuale. Quanto meno in via transitoria (in attesa del concorso unico), se ne gioverebbe l’interscambio di professionalità: la militare nella penale, l’amministrativa, la tributaria e la contabile nella civile. La stessa spinta corporativa della magistratura ordinaria ne verrebbe grandemente ridotta, anche se non è solo così che si consegue il risultato di evitare ulteriori compromissioni della pubblica funzione: le indebite ingerenze associative nella politica giudiziaria derivano anche dall’esistenza di un sistema estremamente lassista, in tema di incompatibilità ed ineleggibilità dei magistrati alle cariche pubbliche, sistema che richiede interventi normativi assai più stringenti di quelli finora tentati. Anche perché, come abbiamo visto, per le cariche elettive, quando si è trattato di introdurre un periodo di allontanamento dei condannati della vita pubblica, non si è guardato tanto per il sottile, producendo quella pasticciata disciplina dell’incandidabilità che ha ingiustamente colpito il nostro compagno Miniscalco: un’ingiustizia contro cui reagisce un nostro disegno di legge, per riportare la materia al sistema delle garanzie costituzionali .
Ma occorre anche porre mente ad una reale riforma della magistratura onoraria, che disbriga tanta parte del contenzioso vissuto come “minore” dai togati, eppure così vicino alla vita di ogni giorno dei cittadini comuni: si tratta di un problema eminentemente di risorse economiche, ma questa esigenza di gratificazione – per l’apporto dato da professionisti spesso anziani – non deve far dimenticare che dall’indipendenza economica discendono anche minori pericoli di commistioni indebite, e di conflitti di interesse con l’ambiente forense di provenienza.
Infine, va ricordato che il sistema giustizia si vale di una congerie di altre figure amministrative, che troppo spesso sono ignorate e la cui gestione razionale è troppo spesso affidata al volontariato. Dal caso inaudito della scoperta del precariato dei fonici-trascrittori-stenotipisti (con le conseguenti implicazioni in termini di rispetto del segreto, da me indicate in un’interrogazione ancora senza risposta dal 21 gennaio 2014) si può partire per affrontare tutta una complessa tematica, troppo facilmente etichettata dai giornali come “costo delle intercettazioni telefoniche”. Il costo dell’apparato discende anche dal feticcio della sottoposizione gerarchico-funzionale dei cancellieri giudiziari ad una carriera, quella dei giudici, assunta con un concorso di tipo giuridico-umanistico: occorre rendere autonome queste figure gestionali, dare loro precise responsabilità dell’organizzazione delle risorse strumentali delle sedi giudiziarie (dagli immobili, alla custodia, alla manutenzione, all’informatica, al personale subordinato), liberando i presidenti dei tribunali di una serie di elementi estranei alla loro vocazione di organizzazione della funzione giudicante e, nel contempo, rendendo più efficiente il servizio dello “sportello giustizia” per il cittadino utente.L’organizzazione della pubblica amministrazione costituisce una tematica, ad affrontare la quale si guadagnano grandi vantaggi in termini di credibilità delle Istituzioni, e tutti noi sappiamo quanto ve ne sia bisogno. La trasparenza è una precondizione che riguarda tutti, perché previene i conflitti di interesse: eletti , pubblici amministratori ma anche appaltatori che vengano in relazione con i primi. Ad essa va aggiunta la necessità di riportare a sistema le eccezioni, dietro cui si nascondono incrostazioni gestionali quando non veri e propri ambiti di opacità amministrativa: ancora stamattina il Corriere della sera “apre” sull’esigenza che le disparità retributive siano ricondotte a razionalità, ma ignora che un’esigenza di rientro nella legalità da tempo vede in campo la proposta del partito socialista sull’abolizione dell’autodichia degli organi costituzionali e per un generalizzato tetto retributivo deciso per legge .
A cantare fuori dal coro, anche su queste questioni, si rischia l’isolamento mediatico: ma se vogliamo che le Istituzioni riguadagnino credibilità, dobbiamo partire proprio da quelle che toccano valori inestimabili – come l’amministrazione della giustizia e gli organi della democrazia rappresentativa – per dimostrare la capacità di riforma che il Paese ci chiede e che noi, con la nostra capacità di proposta, siamo in grado di soddisfare.Senatore Enrico Buemi