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La Corte di Cassazione (Sent. 16-04-2020, n. 7869) decide un ricorso ove si lamenta lamenta la violazione del D.P.R. n. 115 del 2002, artt. 13 e 136, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, perchè la Corte di Appello di Potenza, a firma del relatore Fabrizio Nastri, avrebbe erroneamente disposto la revoca dell’ammissione del ricorrente al beneficio del patrocinio a spese dello Stato per effetto della ritenuta infondatezza del gravame dallo stesso proposto.
Il ricorrente assume, in particolare, di non aver agito con colpa grave e che, pertanto, non sussistesse alcun motivo per disporre la revoca del beneficio al quale egli era stato ammesso.
La Corte di cassazione conferma che la revoca del beneficio del patrocinio a spese dello Stato costituisce conseguenza automatica, prevista per legge (cfr. del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 74, comma 2), della dichiarazione di manifesta infondatezza della domanda.
Si precisa che trattasi di misura evidentemente ispirata ad evitare che i costi derivanti dalla proposizione di domande evidentemente infondate, ovvero di iniziative giudiziarie attivate con malafede e colpa grave, ricadano sulla collettività.
Il giudizio sulla sussistenza della colpa grave si risolve in un apprezzamento di fatto, non utilmente censurabile in Cassazione, che viene svolto direttamente dal giudice di merito investito della cognizione della causa.
Nè si ravvisano, nella normativa in esame, profili di contrasto con i principi posti dagli artt. 3 e 24 Cost.: quanto al primo, perchè non sussiste alcun trattamento irragionevole di situazioni differenziate, essendo – al contrario – del tutto ragionevole che la situazione di colui che, essendo stato ammesso al patrocinio a spese dello Stato in via provvisoria, abbia agito o resistito in giudizio con colpa grave o malafede, o abbia proposto domande palesemente infondate, non meriti identico trattamento rispetto alla condizione del soggetto che, nella identica condizione soggettiva, si sia invece comportato con buona fede e senza colpa, ed abbia proposto una domanda non manifestamente infondata.
D’altro canto, neppure sussistono profili di contrasto con l’art. 24 Cost., giacchè il diniego dell’ammissione al beneficio del patrocinio a spese dello Stato non si traduce necessariamente ed in via automatica in una limitazione del diritto di azione e difesa dell’interessato. Inoltre, occorre considerare che l’ammissione viene sempre disposta in via provvisoria, onde appare ulteriormente ragionevole che, in sede di verifica finale, si faccia luogo alla revoca del beneficio in tutti i casi in cui la sua anticipata concessione si riveli non giustificata in ragione, alternativamente o cumulativamente, dell’atteggiamento soggettivo dell’interessato ovvero dell’oggettiva manifesta infondatezza della domanda da esso proposta.
Riportiamo di seguito il testo esteso della sentenza di cassazione n. 7869/2020 e della precedente sentenza di merito della Corte di Potenza.
Alberto Vigani
Per Associazione Art. 24 Cost.
Riferimenti normativi
- D.P.R. n. 115 del 2002, art. 74, comma 2
- Costituzione, art. 24
- Costituzione, art. 24
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Cass. civ. Sez. I, Sent., (ud. 10-01-2020) 16-04-2020, n. 7869
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REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –
Dott. GHINOY Paola – Consigliere –
Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –
Dott. OLIVA Stefano – rel. Consigliere –
Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 36400/2018 proposto da:
C.B., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TARANTO 90, presso lo studio dell’avvocato LUCIANO NATALE VINCI, rappresentato e difeso dall’avvocato GIUSEPPE MARIANI;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI n. 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;
– resistente –
avverso la sentenza n. 359/2018 della CORTE D’APPELLO di POTENZA, depositata il 05/06/2018;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/01/2020 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVA;
udito il P.G., in persona del sostituto Dott. IGNAZIO PATRONE, il quale ha concluso per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
Con ricorso depositato il 5.8.2016 C.B., cittadino della (OMISSIS), impugnava il provvedimento della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Bari con il quale era stata rigettata la sua richiesta volta ad ottenere, in via principale, lo status di rifugiato, in subordine la protezione sussidiaria ed in ulteriore subordine il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari. A sostegno dell’istanza il ricorrente deduceva di essere fuggito dalla Guinea a causa di uno scontro tribale tra le etnie (OMISSIS) e (OMISSIS) occasionato da una lite avvenuta ad un distributore di benzina.
Si costituiva il Ministero dell’Interno resistendo al ricorso ed invocandone il rigetto.
Con ordinanza dell’8.6.2017 il Tribunale di Potenza rigettava l’opposizione ritenendo che il richiedente non avesse fornito elementi gravi, precisi e concordanti a sostegno dell’esistenza di fenomeni di persecuzione a suo danno, o comunque di una situazione di incertezza e violenza diffusa in Guinea tale da giustificare la concessione di una misura di protezione.
Avverso tale decisione interponeva appello l’odierno ricorrente, riproponendo le medesime richieste proposte in prime cure.
Il Ministero dell’Interno si costituiva in seconde cure per resistere al gravame.
La Corte di Appello di Potenza, con la sentenza oggi impugnata, n. 359/2018, respingeva l’impugnazione.
Propone ricorso per la cassazione della decisione di rigetto C.B. affidandosi a tre motivi.
Il Ministero dell’interno, intimato, ha depositato atto di costituzione ai fini della partecipazione alla pubblica udienza.
Motivi della decisione
Con il primo motivo il ricorrente lamenta la nullità della sentenza in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, perchè la Corte di Appello avrebbe respinto il gravame senza esaminare la domanda di protezione umanitaria formulata in subordine dal richiedente.
Con il secondo motivo il ricorrente si duole del mancato riconoscimento della protezione umanitaria, con riferimento all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, perchè la Corte lucana avrebbe dovuto ravvisare i presupposti di vulnerabilità richiesti dall’ordinamento.
La prima censura è infondata. Risulta invero dall’esame della sentenza impugnata (cfr. pagg. 10 e ss.) che la Corte di Appello ha specificamente affrontato la domanda di riconoscimento della tutela umanitaria, rigettandola per insussistenza dei relativi presupposti di vulnerabilità richiesti dalla legge. Non si configura pertanto alcun profilo di omesso esame della predetta istanza.
Le ulteriori deduzioni contenute nel primo e nel secondo motivo, con le quali il ricorrente contesta la valutazione di non credibilità della sua storia e sostiene la sussistenza dei presupposti di vulnerabilità previsti dalla legge per la concessione della tutela umanitaria, sono inammissibili in quanto si risolvono nella sollecitazione di una revisione delle valutazioni e del convincimento del giudice di merito al fine di ottenere una nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione (Cass. Sez. U, Sentenza n. 24148 del 25/10/2013, Rv. 627790). Peraltro con le predette censure il C. non attinge in modo specifico il punto della decisione impugnata, invero essenziale, in cui la Corte potentina evidenzia che il ricorrente aveva fornito, innanzi la Commissione territoriale e negli atti difensivi prodotti in sede giudiziaria, una storia diversa (pag. 3 della sentenza), ritenendo di conseguenza poco credibile la sua narrazione. Sul punto, va ribadito che quando il richiedente la protezione riferisca, nelle varie occasioni in cui viene ascoltato o comunque si esplica il suo diritto al contraddittorio, un racconto diverso e non coerente (laddove la differenza non verta su un elemento secondario della storia: cfr. Cass. Sez. 6-1, Ordinanza n. 26921 del 14/11/2017, Rv. 647023), finisce per essere minata la sua stessa attendibilità e, di conseguenza, i fatti narrati non possono essere ritenuti veritieri alla stregua della disposizione di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, lett. e).
Con il terzo motivo il ricorrente lamenta la violazione del D.P.R. n. 115 del 2002, artt. 13 e 136, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, perchè la Corte di Appello avrebbe erroneamente disposto la revoca dell’ammissione del C. al beneficio del patrocinio a spese dello Stato per effetto della ritenuta infondatezza del gravame dallo stesso proposto. Il C. assume, in particolare, di non aver agito con colpa grave e che, pertanto, non sussistesse alcun motivo per disporre la revoca del beneficio al quale egli era stato ammesso.
La censura è infondata.
La revoca del beneficio del patrocinio a spese dello Stato costituisce conseguenza automatica, prevista per legge (cfr. del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 74, comma 2), della dichiarazione di manifesta infondatezza della domanda. Trattasi di misura evidentemente ispirata ad evitare che i costi derivanti dalla proposizione di domande evidentemente infondate, ovvero di iniziative giudiziarie attivate con malafede e colpa grave, ricadano sulla collettività. Il giudizio sulla sussistenza della colpa grave si risolve in un apprezzamento di fatto, non utilmente censurabile in Cassazione, che viene svolto direttamente dal giudice di merito investito della cognizione della causa. Nè si ravvisano, nella normativa in esame, profili di contrasto con i principi posti dagli artt. 3 e 24 Cost.: quanto al primo, perchè non sussiste alcun trattamento irragionevole di situazioni differenziate, essendo – al contrario – del tutto ragionevole che la situazione di colui che, essendo stato ammesso al patrocinio a spese dello Stato in via provvisoria, abbia agito o resistito in giudizio con colpa grave o malafede, o abbia proposto domande palesemente infondate, non meriti identico trattamento rispetto alla condizione del soggetto che, nella identica condizione soggettiva, si sia invece comportato con buona fede e senza colpa, ed abbia proposto una domanda non manifestamente infondata. D’altro canto, neppure sussistono profili di contrasto con l’art. 24 Cost., giacchè il diniego dell’ammissione al beneficio del patrocinio a spese dello Stato non si traduce necessariamente ed in via automatica in una limitazione del diritto di azione e difesa dell’interessato. Inoltre, occorre considerare che l’ammissione viene sempre disposta in via provvisoria, onde appare ulteriormente ragionevole che, in sede di verifica finale, si faccia luogo alla revoca del beneficio in tutti i casi in cui la sua anticipata concessione si riveli non giustificata in ragione, alternativamente o cumulativamente, dell’atteggiamento soggettivo dell’interessato ovvero dell’oggettiva manifesta infondatezza della domanda da esso proposta.
In definitiva, il ricorso va rigettato.
Nulla per le spese, in difetto di svolgimento di notificazione di controricorso da parte del Ministero intimato.
Poichè il ricorrente è stato ammesso al beneficio del patrocinio a spese dello Stato, non sussistono i presupposti per il versamento, ai sensi del Testo Unico di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello richiesto per la stessa impugnazione, salvo revoca del beneficio.
P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 10 gennaio 2020.
Depositato in Cancelleria il 16 aprile 2020
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CORTE DI APPELLO DI POTENZA
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
La Corte di Appello di Potenza, riunita in persona dei seguenti magistrati:
dott. Cataldo Carmine Collazzo – Presidente
dott. Michele Videtta – Consigliere
Avv. Fabrizio Nastri – Giudice Ausiliario, relatore
ha emesso la seguente
SENTENZA
nella causa civile iscritta al n.451/2017 R.G. avente ad oggetto: impugnazione ex art. 35 D.Lvo 25/2008, vertente tra:
CAMARA BANGAL, difeso dall’Avv. Bitonti Angela Maria presso il cui studio in Matera alla via Lucana n. 23 è elettivamente domiciliato
Appellante
Contro
MINISTERO DELL’INTERNO e COMMISSIONE TERRITORIALE PER IL RICONOSCIMENTO DELLA PROTEZIONE INTERNAZIONALE DI BARI, difeso dall’Avv. AVVOCATURA DISTRETTUALE DELLO STATO POTENZA, ed elettivamente domiciliato in CORSO XVIII AGOSTO, 46 (P.ZO UFFICI GOVERNATIVI) 85100 POTENZA;
Appellato
nonché
PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE DI APPELLO
Interventore
CONCLUSIONI: come in narrativa
1. Con ricorso depositato il 05.08.2016, il sig. Camara Bangal, notificato a parte resistente e comunicato al PM in data 05.12.2016, il ricorrente, cittadino originario della Guinea Conakry, proponeva opposizione avverso il provvedimento della Commissione Territoriale per il riconoscimento della protezione del 30.05.2016, notificato il 25.07.2016, con cui la Commissione, a seguito della sua audizione decideva di non riconoscere la protezione internazionale così come quella sussidiaria ed umanitaria.
Con Ordinanza del 05.06.2017, depositata il 08.06.2017 il Tribunale di Potenza rigettava il reclamo proposto ritenendo la domanda del ricorrente MANIFESTAMENTE INFONDATA, sia in riferimento al riconoscimento dello status di rifugiato, sia al diritto alla protezione sussidiaria.
Con atto di appello del 03.07.2017, notificato il 04/07/2017, il ricorrente impugnava la suddetta ordinanza ritenendo che il Tribunale, così come la Commissione in precedenza, non avesse adeguatamente motivato il rifiuto della domanda ritenendola carente di elementi probatori a sostegno.
Tra i motivi di appello l’odierno appellante rilevava la carenza di motivazione in riferimento alla credibilità soggettiva del racconto fatto in sede di audizione ed alle condizioni oggettive del paese di origine dello stesso.
Chiedeva, pertanto, previa sospensione dell’efficacia esecutiva della ordinanza impugnata, di dichiarare la nullità dell’ordinanza di primo grado impugnata per vizio di ultra petizione; nel merito, la riforma dell’ordinanza impugnata con accoglimento delle domande proposte.
Si costituiva il Ministero degli Interni contestando l’infondatezza dell’appello per insussistenza dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato e per la concessione della protezione sussidiaria ed umanitaria e chiedendo il rigetto del ricorso e la conferma della decisione della Commissione Territoriale.
Il Ministero chiedeva altresì la revoca dell’ammissione al Patrocinio a spese dello Stato, considerata la manifesta infondatezza della domanda.
Con nota del 28.07.2017 il Procuratore Generale esprimeva parere contrario all’accoglimento dell’appello.
Alla udienza del 20.03.2018 le parti precisavano le conclusioni, rinunciando ai termini per il deposito delle memorie conclusionali e la Corte, previa sostituzione del Relatore, tratteneva la causa per la decisione.
MOTIVI DELLA DECISIONE
In primo luogo va disattesa l’eccezione di inammissibilità dell’appello proposto, sollevata dalla difesa delle parti appellate, essendo stato l’appello tempestivamente instaurato con atto di citazione notificato il 04/07/2017 e quindi nel rispetto del temine che prevede che lo stesso venga notificato all’appellato entra 30 giorni dal deposito dell’ordinanza, avvenuto il 08.06.2017.
I motivi di appello sono comunque infondati.
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1. MANCATA CORRISPONDENZA TRA CHIESTO E PRONUNCIATO.
Nel merito, si evidenzia l’infondatezza del motivo di appello con cui il sig. Camara Bangal lamenta la mancata corrispondenza tra chiesto e pronunciato rispetto al punto dell’appellata ordinanza con cui il Giudice di prime cure rileva che “come motivi di opposizione, il ricorrente deduceva: la nullità di detto atto (cioè della decisione della Commissione), per una carenza di motivazione, in riferimento alla credibilità soggettiva ed alle condizioni oggettive del Paese di origine del ricorrente”. E’ evidente, infatti, che il Tribunale ha inteso raggruppare sinteticamente, per poi approfondire nel corpo del provvedimento, i motivi di opposizione dedotti dal ricorrente nell’atto introduttivo ed afferenti principalmente alla credibilità del ricorrente ed alle condizioni oggettive del Paese di origine del ricorrente.
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2. ERRATA VALUTAZIONE DELLA VICENDA PERSONALE DELL’APPELLANTE.
Nel merito delle doglianze espresse dal ricorrente e segnatamente con il secondo motivo, afferente ad una mancata valutazione della vicenda personale del ricorrente, questa Corte rappresenta che, sia la Commissione Territoriale che il Tribunale, hanno valutato compiutamente tutti gli elementi esposti concludendo che non sono stati avvalorati dal sig. Camara Bangal, nemmeno in sede di gravame.
Il ricorrente originario di N’Zerecore (Guinea Conakry) negli atti di primo grado, ma anche in sede di gravame, ha riferito di essere stato costretto ad abbandonare il suo Paese a causa della difficile e pericolosa situazione personale in cui si trovava e di non poter fare ritorno poiché vittima di persecuzioni di carattere religioso poiché appartenente alla etnia Malenkè di fede musulmana.
Invero, ciò che è stato narrato dal sig. Camara Bangal in sede di audizione dinanzi alla Commissione Territoriale rappresenta una realtà totalmente differente da quanto dedotto in primo grado e nell’odierno giudizio di appello.
Infatti, egli ha effettivamente dichiarato di essere musulmano di etnia Malenke, di non essersi mai occupato di politica e di non aver mai subito condanne o di essere stato incarcerato, ma alla domanda della Commissione sul perché avesse abbandonato il suo paese di origine egli ha narrato di presunti scontri fra due diverse etnie (fra cui la sua) appartenenti a diverse fedi religiose, avvenuti nel 2013, non subite tuttavia in prima persona. Tutto il racconto, invero, si riferisce a terze persone ed è pregno di incongruenze che fanno ben intendere che il sig. Camara sia stato del tutto estraneo alle vicende narrate.
Vi è da aggiungere che il racconto non è stato avvalorato da elementi gravi, precisi e concordanti, idonei ad assolvere l’onere probatorio e diretto a corroborare la richiesta di protezione internazionale. Sempre in sede di audizione, l’appellante ha continuato il suo racconto narrando di essere scappato anche a causa di prospettati e futuri disordini di carattere politico, che avrebbero potuto verificarsi, fra due opposte etnie (fra cui la sua) aderenti a due contrapposti partiti politici, in seguito alle elezioni che si sarebbero svolte nell’ottobre del 2015.
Ebbene vi è da rilevare che il ricorrente ha altresì dichiarato di aver lasciato il suo paese il 20.05.2014.
Il ricorrente quindi ha lasciato il suo paese un anno dopo il verificarsi dello scontro etnico/religioso, quando la situazione si era, per sua stessa ammissione, abbondantemente risolta, ed un anno prima dal paventato scontro etnico/politico.
Da ultimo, l’appellante ha dichiarato di aver timore di tornare nel suo paese di origine, poiché prima di partire, aveva venduto un motorino appartenente ad un suo amico per pagare il viaggio.
Quanto narrato, oltre tutto in modo confuso, per sentito dire e contraddittorio, dimostra come la vicenda personale dell’appellante non sia assolutamente idonea ai fini del riconoscimento della protezione internazionale, poiché non si palesa un rischio effettivo ai sensi del combinato disposto delle lettere e) ed f) dell’art. 2 e dell’art.11 del d.1.vo n. 251/2007.
Come è stato infatti chiarito il diritto di asilo di cui all’art. 10 della Costituzione trova riconoscimento e tutela nelle forme e nei limiti previsti dalla citata normativa (Cass, S.U. n.19393/09 e Cass. n.10686/2012) e lo status di rifugiato viene riconosciuto allo straniero che, per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica, si trova fuori dal Paese di cui ha la cittadinanza e non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di tale Paese. I responsabili della persecuzione, ai fini del riconoscimento, sono, ai sensi dell’art.5 del testo di legge citato, lo Stato, i partiti o le organizzazioni che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio, nonché soggetti non statuali, se lo Stato, i partiti o le organizzazioni che controllano lo Stato o una parte consistente del territorio, comprese lo organizzazioni internazionali, non possono o non vogliono fornire protezione, adottando adeguate misure per impedire atti persecutori.
I1 timore di subire persecuzioni dai soggetti sopra citati e per i motivi su indicati (razza, religione, nazionalità, appartenenza a gruppi sociali, opinioni politiche), dunque, deve essere fondato, ossia comprovato sulla base di elementi verificabili.
Peraltro, il legislatore, in conformità ai principi di diritto internazionale ed alle direttive comunitarie, pur esigendo la completezza della domanda di riconoscimento – quanto alle dichiarazioni su cui si fonda, alla documentazione di rilievo, alle condizioni personali e sociali del richiedente, ai motivi della domanda (v. l’art. 3, commi 1 e 2, del d.Lvo n. 251/2007) – rende più agevole, con la previsione di cui all’art 3, comma 5, del testo di legge citato, la prova dei presupposti del riconoscimento stesso. La predetta norma prevede, nello specifico, che l’esame della domanda comporta la valutazione di tutti i fatti pertinenti che riguardano il Paese di origine, delle dichiarazioni dell’aspirante e della documentazione prodotta, nonché della sua situazione individuale, e che, qualora taluni elementi o aspetti delle dichiarazioni del richiedente non siano suffragati da prove, essi sono considerati veritieri, a condizione che vengano verificati una serie di presupposti, ossia che: a) che il richiedente ha compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda; b) che tutti gli elementi pertinenti in suo possesso sono stati prodotti ed è stata fornita idonea motivazione dell’eventuale mancanza di altri elementi significativi; c) che le dichiarazioni siano coerenti e plausibili, oltre che non in contrasto con te informazioni generali e specifiche di cui si dispone; d) che la domanda di protezione sia stata presentata il prima possibile; e) che il richiedente, sulla base dei riscontri effettuati, risulti attendibile. Tali condizioni non sono alternative, ma devono coesistere, per poter attribuire veridicità alle dichiarazioni dell’interessato. La stessa Suprema Corte di Cassazione ha rilevato che “In tema di protezione internazionale dello straniero, sia la Commissione territoriale, alla quale spetta la prima valutazione della domanda di protezione internazionale, sia gli organi di giurisdizione ordinaria sono tenuti a valutare l’esistenza delle condizioni poste a base delle misure tipiche e della misura residuale del permesso umanitario, utilizzando il potere-dovere d’indagine previsto dall’art. 8, terzo comma, del d.lgs. n. 25 del 2008 e quello relativo alla credibilità delle dichiarazioni del richiedente, precisato dall’art. 3 del d.lgs. n. 251 del 2007, con forte attenuazione del regime ordinario dell’onere della prova” (cass, sez. 6 – 1, 24 settembre 2012, n.16221).
Ciò premesso, si osserva che i fatti narrati dal richiedente non attengono a persecuzioni da lui subite per motivi di razza, nazionalità, religione, opinioni politiche o appartenenza ad un gruppo sociale e pertanto – anche qualora veritieri – non integrerebbero gli estremi per il riconoscimento dello status di rifugiato come definito dall’art. 1A della Convenzione di Ginevra del 1951 e dall’art. 2 comma 1 lett. e) del d.lgs. 251/2007.
Sotto tale profilo, quindi, non vi è stata, da parte del Tribunale, alcuna omissione di valutazione delle circostanze di fatto rappresentate e tanto meno una inadeguata valutazione della sussistenza di una situazione di violenza generalizzata nella regione di provenienza del ricorrente.
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3. ERRATA VALUTAZIONE DELLA SITUAZIONE IN GUINEA.
In ordine al terzo motivo di appello è doveroso smentire quanto dedotto circa la situazione politica e sanitaria presenti attualmente in Guinea.
Si rileva preliminarmente che, allo stato, in Guinea non si rilevano conflittualità tali da giustificare la concessione della protezione sussidiaria né tantomeno di quella umanitaria, non sussistendo per il ricorrente il timore fondato di essere perseguitato ed il rischio effettivo di subire un grave danno non essendo presente una violenza indiscriminata e diffusa sul territorio d’interesse.
Fonti recenti smentiscono recisamente quanto dedotto dall’appellante in ordine ai rischi legati anche alla sua fede religiosa.
La Guinea è uno stato dell’Africa occidentale, confinante a nord con la Guinea-Bissau, il Senegal e il Mali, a est con il Mali e la Costa d’Avorio, a sud con la Liberia e la Sierra Leone; a ovest si affaccia sul Golfo di Guinea con un litorale di circa 280 chilometri e dalle informazioni estrapolate dal rapporto 2016 stilato dall’organizzazione Human Rights Watch, emerge con chiarezza che in Guinea attualmente è in atto una graduale fase di ripresa, iniziata con l’attuale governo del presidente Alpha Conde, e che detto Stato “ha fatto qualche progresso nel consolidare lo stato di diritto e affrontare le violazioni delle forze di sicurezza. Un dialogo a livello nazionale tra i partiti al governo e quelli all’opposizione ha ridotto le tensioni etniche e comunali e ha portato a una tabella di marcia per le elezioni amministrative da lungo tempo posposte che si terranno all’inizio del 2017…omissis…Le segnalazioni di violazioni dei diritti umani da parte delle forze di sicurezza sono diminuite e le autorità hanno mostrato una maggiore disponibilità ad indagare e sanzionare coloro che sono implicati in violazioni, in particolare quelli che erano stati ampiamente riportati nei media locali”.
Il recente rapporto COI del novembre 2017 1 riguardo alla situazione generale afferma che l’apertura del dialogo politico inter-guineano ha permesso di firmare un accordo, il 12 ottobre 2016, tra il Capo dello Stato Alpha Condè e Cellou Dalein Diallo, presidente dell’UFDG, della comunità Fulani, il cui status di leader dell’opposizione è riconosciuto, e fornisce finanziamenti per le sue attività.
Il governatore della Kindia ha spiegato che i periodi elettorali hanno dato origine a “Momenti di non accettazione” in cui la variabile etnica prende il sopravvento. Il patto per l’educazione e la consapevolezza degli attivisti portati dai partiti politici sono in parte inefficaci perché la gente continua a votare secondo la loro etnia, e non per un programma politico; La fedeltà politica è dunque basata soprattutto sull’orgoglio minoranza etnica e una promessa di sostegno della comunità
I giornalisti, i blogger e una fonte diplomatica, infatti, hanno confermato che le alleanze sono di priorità su base etnica, quindi, un cittadino Malinke tenderà a sostenere il presidente Conde, mentre un cittadino Fulani si unirà all’opposizione guidata da Cellou Dalein Diallo. .
Sul clima politico interno, tuttavia, l’informazione è concordante su un certa apertura al dialogo e sulla diminuzione della violenza politica, anche se gli scontri con le forze dell’ordine permangono.
Il ministro della Difesa è intervenuto più volte per calmare la situazione, ma la situazione non ha destato particolare preoccupazione e l’OHCHR conferma che gli oppositori politici non sono braccati e che i partiti politici operano liberamente.
Deve aggiungersi che oltre quadro politico generale, come si ricava dal rapporto di Amnesty International 2016/2017, in Guinea vi è stata l’abolizione della pena di morte, circostanza che evidenzia ulteriormente il sempre maggiore riconoscimento dei diritti umani. Tale situazione è altresì confermata dal sito della Farnesina “viaggiare sicuri”, da cui si ricava che pur essendo raccomandabile evitare spostamenti in Guinea, a causa dell’eventuale insorgere di scontri di piazza o fenomeni di micro criminalità, tale Stato non appare attualmente interessato da una situazione di violenza indiscriminata.
Per quanto concerne il profilo sanitario, invece, si sottolinea che nel caso de quo il solo ipotetico rischio di contrarre malattie infettive, e in particolare il virus dell’ebola, non è di per sé motivo sufficiente per riconoscere la protezione umanitaria, per di più considerando che, comunque, la World Health Organization ha dichiarato la Guinea libera dal virus dell’ebola già a dicembre 2015 e non sono risultati nuovi casi di contagio nel successivo periodo di “sorveglianza” di 90 giorni. In tutti gli altri casi la catena trasmissione del virus è stata interrotta rapidamente dai Paesi coinvolti grazie a efficaci e tempestive misure di controllo 2
In definitiva, in tutto il Paese non può apprezzarsi alcun rischio di potenziale esposizione a violenza indiscriminata e diffusa, tale da giustificare il riconoscimento della protezione sussidiaria ai sensi dell’art. 14, lett. c) d.lgs. 251/2007.
Non sussistendo il rischio effettivo di subire un grave danno e non sussistendo concretamente una minaccia grave ed individuale per l’appellante, sia da un punto di vista politico che sanitario, non può essere riconosciuta in suo favore la richiesta protezione sussidiaria.
A ciò si aggiunga che, i sensi dell’art. 2, lett. g) ed h) del D. Lgs. 251/2007, la protezione sussidiaria spetta al cittadino di un Paese non appartenente all’Unione Europea o apolide che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato, ma nei cui confronti sussistano fondati motivi per ritenere che, se tornasse nel Paese d’origine, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno.
Per danno grave (art. 14) deve intendersi: a) la condanna a morte o all’esecuzione della pena di morte; b) la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante; c) la minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale.
L’esame deve, nel caso concreto, essere limitato alla disposizione dell’art. 14 lett. c).
A tale proposito, occorre considerare:
a) che la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, con la sentenza 30 gennaio 2014, Diakité v. Commissairegénéralauxréfugiés et auxapatrides, C-285/12, ha affermato che l’articolo 15, lettera c), della direttiva 2004/83/CE del Consiglio, del 29 aprile 2004, recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta, deve essere interpretato nel senso che si deve ammettere l’esistenza di un conflitto armato interno, ai fini dell’applicazione di tale disposizione, quando le forze governative di uno Stato si scontrano con uno o più gruppi armati o quando due o più gruppi armati si scontrano tra loro, senza che sia necessario che tale conflitto possa essere qualificato come conflitto armato che non presenta un carattere internazionale ai sensi del diritto internazionale umanitario e senza che l’intensità degli scontri armati, il livello di organizzazione delle forze armate presenti o la durata del conflitto siano oggetto di una valutazione distinta da quella relativa al livello di violenza che imperversa nel territorio in questione;
b) che la stessa CGUE, con la sentenza 17 febbraio 2009, Elgafaji v. Staatssecretaris van Justitie, C-465/07, ha affermato che l’art. 15, lett. c), della direttiva del Consiglio 29 aprile 2004, 2004/83/CE, recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta, in combinato disposto con l’art. 2, lett. e), della stessa direttiva, deve essere interpretato nel senso che:
– l’esistenza di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria non è subordinata alla condizione che quest’ultimo fornisca la prova di essere specifico oggetto di minaccia a motivo di elementi peculiari della sua situazione personale;
– l’esistenza di una siffatta minaccia può essere considerata, in via eccezionale, provata qualora il grado di violenza indiscriminata che caratterizza il conflitto armato in corso, valutato dalle autorità nazionali competenti cui sia stata presentata una domanda di protezione sussidiaria o dai giudici di uno Stato membro ai quali venga deferita una decisione di rigetto di una tale domanda, raggiunga un livello così elevato che sussistono fondati motivi di ritenere che un civile rientrato nel paese in questione o, se del caso, nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio di questi ultimi, un rischio effettivo di subire la detta minaccia.
Da tali pronunce si ricava, quindi:
– che deve essere accertata l’esistenza di un conflitto armato interno quando le forze governative di uno Stato si scontrano con uno o più gruppi armati o quando due o più gruppi armati si scontrano tra loro,
– che, nel caso di conflitto, la minaccia grave ed individuale alla persona sussiste senza che sia necessario provare che tale minaccia sia diretta e specifica alla persona per motivi che attengono alla sua situazione personale;
– che il grado di violenza indiscriminata del conflitto può essere assunto a prova della minaccia quando raggiunga tale livello da far ragionevolmente ritenere che se il civile rientri nel suo paese o nella zona interessa, per la sua sola presenza, è concreto il rischio di subire tale minaccia.
Tanto premesso, occorre pur sempre considerare che, ai fini dell’applicazione dell’art. 14 lett. c) del D. Lgs. 251/2007, è necessario che il ricorrente esponga una situazione personale e alleghi una situazione del Paese di provenienza dalle quali emergano e siano fatte valere, quale presupposto della domanda di protezione, sia l’esistenza di un conflitto interno o internazionale, sia una situazione di violenza indiscriminata causata da tale conflitto.
In altri termini, non pare alla Corte che l’esistenza del conflitto armato e la situazione di violenza indiscriminata possano essere poste alla base del riconoscimento della protezione sussidiaria allorquando il richiedente, con l’esposizione dei fatti che lo riguardano, rappresenti una situazione personale che non è in alcun modo collegata né all’esistenza di un (peraltro inesistente) conflitto, né alla situazione (altrettanto insussistente) di violenza indiscriminata che possa rappresentare una minaccia grave ed indiscriminata alla persona, per quanto non diretta e specifica per motivi che attengano alla sua situazione personale.
Così peraltro si è pronunciata la giurisprudenza di legittimità: la proposizione del ricorso al Tribunale nella materia della protezione internazionale dello straniero non si sottrae all’applicazione del principio dispositivo, sicché il ricorrente ha l’onere di indicare i fatti costitutivi del diritto azionato, pena l’impossibilità per il giudice di introdurli d’ufficio nel giudizio. (Nella specie, la S.C., nel rigettare la censura relativa al mancato utilizzo dei poteri officiosi da parte del giudice di merito, evidenziava che il ricorrente non aveva nemmeno allegato “la violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale” esistente in Nigeria e di cui all’art. 14, lett. c), del d.lgs. n. 251 del 2007, fatto costitutivo di particolare ipotesi di protezione sussidiaria) (Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 19197 del 28/09/2015, Rv. 637125).
Nel caso di specie, il richiedente ha esposto, dinanzi alla Commissione e poi ha ribadito nel corso del procedimento, una situazione in cui non è stato prospettato il “danno grave”, inteso nel senso appena chiarito, avendo affermato di aver lasciato il proprio paese per motivi del tutto estranei alla presenza di un conflitto armato e che si riferiscono alla vendita di un motociclo di proprietà di un amico e che il timore di rientrare nel suo paese di origine dipenderebbe solo ed esclusivamente da questa circostanza.
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Quanto infine alla protezione umanitaria, la Corte osserva che la giurisprudenza di legittimità ha affermato che occorre sempre spiegare perché fatti narrati dal ricorrente, ritenuti inidonei a fondare la concessione dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria, sarebbero altresì insuscettibili di giustificare la concessione di un permesso di soggiorno per motivi umanitari, ancorché rappresentino un quadro sintomatico di pericolosità per l’incolumità del richiedente, rappresentato dalla conservazione di un sistema di vendette private, sostanzialmente tollerato o non efficacemente contrastato, anche se non riconducibile per assenza del fumus persecutionis e della situazione di violenza incontrollata rispettivamente al rifugio politico e alla protezione sussidiaria (cfr. Cass. Sez. VI, sent. n. 21903/2015, in motivazione).
Il principio di non refoulement attiene alla protezione del rifugiato, in quanto vieta allo Stato di respingere o espellere il richiedente verso il paese d’origine nel quale la vita o la libertà possa essere oggetto di minaccia. A differenza dell’asilo, che si applica a coloro che sono in grado di provare il timore di persecuzioni derivante dall’appartenenza ad una determinata categoria, tale principio si applica genericamente in situazioni nelle quali l’espulsione dovrebbe avvenire verso zone di guerra e in altri casi di disastri locali.
In altri termini, la protezione cd. umanitaria costituisce una misura residuale, applicabile sia nel caso in cui si accerti una situazione che, di per sé considerata, è astrattamente inquadrabile in una di quelle che costituiscono motivo di persecuzione e che tuttavia, per le circostanze del caso concreto, non sia di tale gravità da integrare i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato; sia nel caso in cui venga accertata l’esistenza di gravi ragioni di protezione reputate astrattamente idonee all’ottenimento della misura tipica richiesta ma limitata nel tempo3; sia, infine, per situazioni diverse da quelle proprie della protezione sussidiaria o correlate a condizioni temporali limitate e circoscritte, come previsto dall’art. 32, terzo comma, del d.lgs. n. 25 del 2008, per la sussistenza di gravi motivi umanitari evidentemente inidonei ad integrare le condizioni necessarie per la protezione sussidiaria4 ovvero da applicarsi in condizioni di vulnerabilità anche non coincidenti con le ipotesi normative delle misure tipiche (cfr., in tale ultimo senso, Cass. sez. VI sent. n. 3347/2015).
Per altro verso, al fine di accertare la sussistenza delle condizioni per il riconoscimento del diritto al rilascio di un permesso di soggiorno per ragioni umanitarie, il giudice della protezione internazionale può valutare le medesime circostanze sulla base delle quali ha escluso il riconoscimento delle due misure maggiori, non essendo necessario dedurre fatti o ragioni diverse od alternative, senza che assuma alcun rilievo la possibilità per il richiedente di spostarsi in un’area geografica diversa del paese d’origine (cfr. Cass. sex. VI ord. n. 15466/2014).
Con la recente sentenza della Suprema Corte n. 4455/2018, si è peraltro affermato:
a) che il parametro dell’inserimento sociale e lavorativo dello straniero in Italia può essere valorizzato come presupposto della protezione umanitaria non come fattore esclusivo, bensì come circostanza che può concorrere a determinare una situazione di vulnerabilità personale che merita di essere tutelata attraverso il riconoscimento di un titolo di soggiorno che protegga il soggetto dal rischio di essere immesso nuovamente, in conseguenza del rimpatrio, in un contesto sociale, politico o ambientale/ quale quello eventualmente presente nel Paese d’origine, idoneo a costituire una significativa ed effettiva compromissione dei suoi diritti fondamentali inviolabili;
b) che la condizione di “vulnerabilità” può, tuttavia, avere ad oggetto anche la mancanza delle condizioni minime per condurre un’esistenza nella quale non sia radicalmente compromessa la possibilità di soddisfare i bisogni e le esigenze ineludibili della vita personale, quali quelli strettamente connessi al proprio sostentamento e al raggiungimento degli standards minimi per un’esistenza dignitosa;
c) che la vulnerabilità può essere la conseguenza di un’esposizione seria alla lesione del diritto alla salute, non potendo tale primario diritto della persona trovare esclusivamente tutela nell’art. 36 del d.lgs n. 286 del 1998 oppure può essere conseguente ad una situazione politico-economica molto grave con effetti d’impoverimento radicale riguardanti la carenza di beni di prima necessità, di natura anche non strettamente contingente, od anche discendere da una situazione geo-politica che non offre alcuna garanzia di vita all’interno del paese di origine (siccità, carestie, situazioni di povertà inemendabili);
d) che non è sufficiente l’allegazione di un’esistenza migliore nel paese di accoglienza, sotto il profilo del radicamento affettivo, sociale e/o lavorativo, indicandone genericamente la carenza nel paese d’origine, ma è necessaria una valutazione comparativa che consenta, in concreto, di verificare che ci si è allontanati da una condizione di vulnerabilità effettiva, sotto il profilo specifico della violazione o dell’impedimento all’esercizio dei diritti umani inalienabili;
e) che è necessaria, pertanto, una valutazione individuale, caso per caso, della vita privata e familiare del richiedente in Italia, comparata alla situazione personale che egli ha vissuto prima della partenza e cui egli si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio. I seri motivi di carattere umanitario possono positivamente riscontrarsi nel caso in cui, all’esito di tale giudizio comparativo, risulti un’effettiva ed incolmabile sproporzione tra i due contesti di vita nel godimento dei diritti fondamentali che costituiscono presupposto indispensabile di una vita dignitosa (art. 2 Cost.);
f) che né il livello di integrazione dello straniero in Italia né il contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani nel Paese di provenienza integrano, di per sé soli e astrattamente considerati, i seri motivi di carattere umanitario, o derivanti da obblighi internazionali o costituzionali, cui la legge subordina il riconoscimento del diritto alla protezione in questione.
Alla luce di tale pronuncia, è possibile affermare:
1) che la condizione di “vulnerabilità” può avere ad oggetto anche la mancanza delle condizioni minime per condurre un’esistenza nella quale non sia radicalmente compromessa la possibilità di soddisfare i bisogni e le esigenze ineludibili della vita personale;
2) che la situazione di vulnerabilità può essere conseguente ad una situazione politico-economica molto grave con effetti d’impoverimento radicale riguardanti la carenza di beni di prima necessità, di natura anche non strettamente contingente, od anche discendere da una situazione geo-politica che non offre alcuna garanzia di vita all’interno del paese di origine (siccità, carestie, situazioni di povertà inemendabili);
3) che è necessaria una valutazione comparativa che consenta, in concreto, di verificare che ci si è allontanati da una condizione di vulnerabilità effettiva, sotto il profilo specifico della violazione o dell’impedimento all’esercizio dei diritti umani inalienabili;
4) che è necessaria, pertanto, una valutazione individuale, caso per caso, della vita privata e familiare del richiedente in Italia, comparata alla situazione personale che egli ha vissuto prima della partenza e cui egli si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio e che all’esito della comparazione risulti un’effettiva ed incolmabile sproporzione tra i due contesti di vita nel godimento dei diritti fondamentali.
Sembra di poter concludere, pertanto, che ove manchino le condizioni minime per condurre un’esistenza in cui non siano radicalmente compromesse le possibilità di soddisfare bisogni primari, è possibile individuare una situazione di vulnerabilità.
Tale situazione di vulnerabilità può essere effetto non solo di una situazione socio – politica molto grave, alla quale consegua l’impoverimento generale per la carenza di generi di prima necessità, ma anche di una situazione geo – politica che non offre garanzie di vita all’interno del paese d’origine (compresa la situazione di povertà inemendabile).
A tale scopo è quindi necessario verificare che il richiedente si sia allontanato da una situazione di vulnerabilità effettiva di tal fatta.
E’ infine necessaria la valutazione comparativa fra la situazione di origine (nella quale il richiedente si troverebbe nuovamente a vivere in caso di rimpatrio) e quella sopravvenuta per effetto del radicamento socio – lavorativo in Italia; valutazione dalla quale emerga una effettiva e incolmabile sproporzione dei due contesti di vita nel godimento dei diritti fondamentali.
Nel caso di specie:
a) il richiedente non ha affermato che, nel suo paese d’origine, siano compromesse le possibilità di soddisfare le condizioni primarie di vita;
b) nessuna possibilità di comparazione è possibile effettuare fra la condizione di provenienza e quella attuale, non avendo il richiedente ottenuto in Italia nessuna condizione socio – lavorativa e di integrazione suscettibile di valutazione;
c) nel paese di origine l’appellante ha riferito di avere ancora i genitori, due sorelle ed un fratello, tutti più piccoli; appare pertanto infondato anche il timore del ricorrente di non sapere dove andare nel caso di rimpatrio. Né il richiedente ha fornito elementi utili per ritenere di aver avviato un serio percorso di integrazione in Italia.
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Le spese del presente grado di giudizio rimangono integralmente compensate fra le parti, considerando: a) che, ad avviso della giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. Sez. U, Sentenza n. 27310 del 17/11/2008), in tema di accertamento del diritto ad ottenere una misura di protezione internazionale, il giudice deve svolgere un ruolo attivo nell’istruzione della domanda, disancorato dal principio dispositivo proprio del giudizio civile ordinario e libero da preclusioni o impedimenti processuali, oltre che fondato sulla possibilità di assumere informazioni ed acquisire tutta la documentazione necessaria, sicché “deve ravvisarsi un dovere di cooperazione del giudice nell’accertamento dei fatti rilevanti ai fini del riconoscimento dello “status” di rifugiato e una maggiore ampiezza dei suoi poteri istruttori officiosi, peraltro derivanti anche dall’adozione del rito camerale, applicabile in questi procedimenti”; b) che, quindi, sia rimessa all’iniziativa del giudice l’acquisizione del materiale probatorio attingendo le opportune informazioni e recuperando la necessarie documentazione da fonti individuate dallo stesso giudice, così sopperendo ad eventuali inerzie palesate o difficoltà incontrate dalle parti nell’accesso ai dati ed ai documenti da valorizzare in funzione delle rispettive posizioni processuali; c) che, proprio in ragione della natura dell’accertamento da operarsi nel giudizio, sia le informazioni utili ai fini della decisione, sia le fonti da cui attingere le stesse siano soggette a continue e imprevedibili modificazioni ed aggiornamenti, con la conseguenza che l’esito del giudizio dipenda, in definitiva, piuttosto che dalla diligenza e dall’attività delle parti, da fattori da queste ultime non controllabili a priori e mutevoli nel corso del processo, al pari degli orientamenti della giurisprudenza rispetto alle questioni qualificanti la fattispecie, spesso connotate dal carattere della novità.
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In considerazione della totale infondatezza del ricorso che risulta in definitiva proposto con colpa grave, sussistono i presupposti di legge (v. art. 136, co. 2, D.P.R. n. 115/2002) per disporre la revoca del gratuito patrocinio cui il ricorrente è stato ammesso in via provvisoria col provvedimento in atti del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Potenza (Prot. n. 6020 del 04.08.2017)
P.Q.M.
definitivamente pronunciando sull’appello proposto con atto depositato il 07.07.2017 avverso l’ordinanza ex art. 702 bis c.p.c. resa dal Tribunale di Potenza, non numerata, depositata l’08.06.2017 nei confronti del MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro in carica, e dalla COMMISSIONE TERRITORIALE PER IL RICONOSCIMENTO DELLA PROTEZIONE INTERNAZIONALE DI BARI, così dispone:
a) rigetta l’appello;
b) compensa tra le parti le spese processuali;
c) revoca l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato emessa in favore dell’appellante.
Così deciso in Potenza nella Camera di Consiglio del 17.04.2018
Il Giudice Ausiliario relatore Il Presidente
Avv. Fabrizio Nastri Dott. Cataldo C. Collazzo