RICHIEDENTI ASILO ED ACCESSO AL GRATUITO PATROCINIO A SPESE DELLO STATO: UNA RELAZIONE ASIMMETRICA A FRONTE DI UN COSTO IMPORTANTE PER L’ERARIO
Richiedenti asilo ed accesso al gratuito patrocinio: il “Rapporto attività 2020”
Le istanze di richiesta di protezione internazionale da parte dei migranti devono essere corredate da motivazioni idonee a permetterne la concessione, ma nella maggior parte dei casi l’esito è negativo.
Secondo il “Rapporto attività 2020” del “Consiglio Italiano per i Rifugiati”, i numeri sono importanti poiché solo nel 2020 sono state presentate 26.963 domande d’asilo, seppur con una flessione del 39% rispetto al 2019, quando ne erano state registrate ben 43.783.
Le domande di asilo
Le richieste di protezione variano con una media va dalle 2000 alle 4000 istanze annue presentate avanti le commissioni territoriali (20 nel totale) nei distretti di Corti d’Appello di medie dimensioni.
Nel 2020, le istanze complessivamente esaminate, evadendo anche una parte dei fascicoli presentati negli anni precedenti (è pari a 10 mesi la durata media della procedura amministrativa), sono state 41.753 ed oltre tre quarti di queste sono state respinte: il dato percentuale ci dice che i dinieghi sono il 76% (ma nel 2016 era l’84,4%), mentre solo l’11,8% sono riconoscimenti dello status di rifugiato, 10,3% sono stati i beneficiari di protezione sussidiaria, 1,9% i beneficiari di protezione speciale. Un tasso di protezione totale in calo del 12% rispetto al 2018, ovvero prima dell’entrata in vigore dei decreti sicurezza (avvenuta solo nel mese di ottobre).
I dati sono ovviamente da proiettare sul futuro con un sensibile incremento atteso che, a fronte di 34.254 arrivi di migranti nel 2020, 11.471 del 2019 e 23.370 nel 2018, vi sono stati ben 37.206 arrivi fino al solo 21 agosto 2021, e molti altri vi saranno entro il 31 dicembre prossimo.
Dopo il diniego della commissione
Così, dopo un periodo medio di più di un anno dall’entrata in Italia del richiedente asilo, con il diniego ricevuto in commissione territoriale, per lui si aprono le porte dei 26 tribunali ove sono presenti le apposite sezioni specializzate, ovvero le sedi giurisdizionali dove i migranti possono fare ricorso entro trenta giorni dalla notifica del rigetto della richiesta di protezione.
Si tratta di un termine perentorio: 30 giorni dalla comunicazione del rigetto della domanda. Se un “ricorrente” sfora il termine, il suo ricorso al Tribunale è dichiarato inammissibile.
Pertanto, in praticamente tutti i casi di rigetto amministrativo della domanda di protezione, per evitare il rimpatrio o quantomeno per evitare di trovarsi in Italia in una situazione di permanenza illegale e poter prolungare la ospitalità nei centri convenzionati (centro di accoglienza straordinari e centri di accoglienza per richiedenti asilo), e pure quando è magari già decorso il termine perentorio di 30 giorni, i richiedenti ricorrono attraverso degli avvocati del settore (una minoranza come si dirà di seguito) alla magistratura.
Lo fanno avvalendosi in tutti i gradi di giudizio del patrocinio a spese dello stato assicurato a tutti i non abbienti (individuati con i soggetti aventi un reddito inferiore ad € 11.746,68 ai sensi di apposito decreto ministeriale in applicazione del DPR 115/2002 che attua l’art. 24 III co. della Costituzione).
Il patrocinio a spese dello Stato
La difesa degli stranieri richiedenti asilo che subiscono il diniego amministrativo della protezione e sono ammessi al beneficio di Stato è quindi richiesta ed ottenuta per intero a carico dell’erario ai sensi degli artt. 74 e ss. del TUSG (Dpr 115/2002).
Secondi i dati diffusi nella Relazione sul funzionamento del sistema di accoglienza di stranieri nel territorio nazionale, riferita all’anno 2019 trasmessa a fine dicembre 2020 dal Ministero dell’interno al Parlamento, la rete della prima accoglienza è costituita da:
- 9 centri governativi, che contano la presenza di 2.569 migranti;
- 5.465 strutture di accoglienza temporanea (cd. CAS) gestite da privati e dislocate nel territorio, in diminuzione rispetto alle 9.132 strutture del 2017 e alle 8.102 del 2018.
Complessivamente tali centri ospitano la maggior parte dei richiedenti asilo, pari a 63.960 (Dossier Camera dei deputati del 11/3/2021).
La certificazione consolare
In origine, ai sensi della lettera della norma, la sussistenza dei requisiti reddituali per ricorrere a questo importante istituto avrebbe dovuto essere accertati tramite consolato, od ambasciata, ma poiché l’immigrato chiede asilo politico, affermando l’esistenza di una componente di rischio e pericolo nel proprio paese di provenienza, si rifiuta di richiedere la certificazione del proprio reddito estero ad una ramificazione dello Stato di appartenenza.
Pertanto, viene concessa la possibilità al medesimo straniero di autocertificare il proprio reddito prodotto nel paese di cittadinanza: la dichiarazione è sempre ZERO. Sul punto, a fare chiarezza, è intervenuta da poco proprio la Corte Costituzionale, confermando l’illegittimità della richiesta di certificazione consolare originariamente prevista nel TUSG.
È del tutto ultroneo fare delle considerazioni circa l’attendibilità di queste “dichiarazioni autocertificate” la cui veridicità è di fatto impossibile accertare nel paese di provenienza del soggetto istante: proprio il riferimento ai redditi esteri impedisce allo Stato italiano di poter svolgere alcuna verifica e l’unica fonte in merito alla loro assenza è la sola voce del soggetto richiedente che è appunto interessato a sostenerne l’inesistenza.
Pertanto, a fronte di svariate decine di migliaia di richieste di asilo presentate annualmente, solo un quarto di esse sono accolte mentre gli altri tre quarti vengono rigettati perché i motivi sono ritenuti non tutelabili, e spesso aberranti, perché cagionati da problematiche del paese di origini solamente economiche o di degrado sociale.
Come detto avverso il diniego – inevitabile nei casi citati – l’immigrato propone ricorso e nelle more dei vari gradi di giudizio rimane in Italia a carico dell’erario (parcella minima di circa 800 euro oltre iva).
La sua permanenza nel territorio dello Stato avviene presso organizzazioni che parimenti ricevono finanziamenti dallo stato (ONG) e dalle quali i richiedenti possono fuggire in ogni momento, sottraendosi ad ogni provvedimento di rimpatrio, poiché non sono in regime di sorveglianza.
Le liquidazioni del patrocinio a spese dello Stato
La liquidazione media delle parcelle del gratuito patrocinio nel 2018 (cit. CEPEJ), in tutte le posizione ammesse, è stata di circa 800 euro, ma l’applicazione pura e semplice del tariffario ex dm 55/2014 ai ricorsi dei richiedenti asilo fornisce – ad oggi – un valore minimo di liquidazione per parcella che varia dai 900 ai 1200 euro (a seconda che sia tribunale, corte d’appello o corte di cassazione).
Ipotesi di liquidazione in tribunale (riducibile fino alla metà e poi ulteriormente da dimezzare ai sensi dell’art. 130 del dpr 115/2002)
Ipotesi di liquidazione in Appello (riducibile fino alla metà e poi ulteriormente da dimezzare ai sensi dell’art. 130 del dpr 115/2002)
Ipotesi di liquidazione in Cassazione (riducibile fino alla metà e poi ulteriormente da dimezzare ai sensi dell’art. 130 del dpr 115/2002)
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Gli esiti del ricorso giudiziale avverso il diniego del riconoscimento della protezione ha percentuali di fallimento ancor più alte di quelle della primigenita domanda amministrativa. Le lamentele delle associazioni di avvocati che si occupano di questi casi parlano di una soccombenza media superiore al 70 % (con picchi del 95 % in appello).
Nel rigetto, in caso di manifesta infondatezza dei ricorsi il gratuito patrocinio può essere revocato dalla Magistratura e l’avvocato, pertanto, non viene pagato.
L’inammissibilità
La modifica introdotta dal decreto sicurezza 113/2018, poi convertito, ha infatti previsto un nuovo articolo 130-bis del TUSG nel quale si sancisce che, nel processo civile, lo Stato non liquida alcun compenso al difensore se la sua impugnazione, anche incidentale, è dichiarata inammissibile (appunto per manifesta infondatezza o improcedibilità).
Se non vi fosse la declaratoria di inammissibilità di una certa aliquota di impugnazioni, a fronte di 30 mila dinieghi di asilo del solo 2020 avremmo altrettanti ricorsi che costeranno dai 24.000.000,00 ai 32.000.000,00 di euro per ciascuno dei due gradi di giudizio esperibili (prima erano 3, ma di quello abrogato si stanno ancora smaltendo i procedimenti illo tempore avviati): quindi almeno 72 milioni di euro da caricare sul bilancio pubblico.
Ad ogni buon conto, in pendenza dei processi, la permanenza del richiedente nelle strutture sovvenzionate (cd. CAS) sarà comunque sostenuta con fondi pubblici fino alla definitività del rigetto della richiesta di asilo, così radicando nel richiedente l’interesse a prolungare il più possibile la sua vicenda giudiziaria, appunto esperendo tutti i gradi di giudizio (come detto, erano tre fino al febbraio 2017 – decreto-legge 17 febbraio 2017, n. 13, ed oggi sono limitati a due), al fine di mantenere una sua pro tempore legittima permanenza nel territorio dello Stato italiano ed il sostegno economico erogato proprio da quest’ultimo: in primo grado il giudizio dura anche un paio d’anni, un po’ di più era per gli appelli, mentre si viaggia in qualcosa in più di uno per la cassazione.
Nel sottolineare che sovente gli avvocati sono sempre gli stessi (il settore è gestito da una strettissima minoranza; qualche decina per regione) e sono sovente segnalati dalle stesse organizzazioni che gestiscono a pagamento il soggiorno degli immigrati, si deve ricordare che residua poi il problema di questi professionisti che si vedono revocati gran parte dei gratuiti patrocini e non vengono più pagati dall’erario.
Orbene, se si esclude il pagamento da parte dell’immigrato resta da accertare chi si occuperà della parcella del professionista che ha presentato un ricorso spesso purtroppo infondato: anche perché chi ha interesse a gestire il business degli immigrati, a farli rimanere in Italia più tempo possibile, diventa fruitore ultimo della lentezza della giustizia italiana, peraltro anche ingolfata a causa di questo nuovo contenzioso.
Le conseguenze
Il tutto a spese dei cittadini italiani, ma soprattutto a scapito della celerità della giustizia, intasata da decine di migliaia di contenziosi, e di chi ha parimenti bisogno che lo stato corra in suo aiuto – in quanto non abbiente e magari italiano, per il pagamento delle spese legali con il beneficio di Stato.
L’istituto del patrocinio a spese dello stato che vige in Italia, in attuazione dell’art. 24 Cost., è un esempio di civiltà in tutto il mondo ed è omologo ad altri similari presenti in tutti i paesi europei.
Per questa ragione è imbarazzante e deprimente constatare che il gratuito patrocinio, talvolta, venga strumentalizzato per fini dove la tutela dei diritti della persona appare solo strumentale.
L’istituto è stato concepito in epoca diversa da quella odierna in cui una percentuale massiccia (la maggioranza) delle istanze sono presentate da migranti i cui requisiti non sono verificabili, così come sono variati gli esiti dei procedimenti che impegnano la magistratura in decine di migliaia di giudizi.
I dati del ministero
Nella penultima relazione ministeriale sullo stato delle spese di giustizia si sottolinea come «i dati in possesso evidenziano una spesa in costante aumento, essenzialmente imputabile ai costi crescenti della spesa per i difensori di soggetti ammessi al patrocinio a spese dello Stato, che negli ultimi anni è passata dai 178 milioni circa dell’anno 2012 ai 215 milioni circa dell’anno 2015, ai 271 milioni circa dell’anno 2016 (dei quali risultano € 133.295.000 nel settore penale) fino ai 323 milioni circa dell’anno 2017, comprensivi di IVA e Cassa forense (dato in via di accertamento definitivo)».
In relazione all’anno 2018 era prevista a consuntivo una spesa onnicomprensiva di circa 350 milioni su base Italia, dei quali € 173.534.768 per il settore penale e, per differenza, € 176.465.232 per il settore civile (per l’intero capitolo delle spese di giustizia – 1360 – è previsto uno stanziamento definitivo pari ad euro 522.721.564 e può ipotizzarsi una spesa complessiva pari ad almeno 580 milioni di euro, comprensiva di spese dei giudici onorari, interpretariato e altro).
Con la legge di bilancio 2020 per il triennio 2021 – 2023 è stato poi stanziato un incremento di risorse per ulteriori quaranta milioni di euro l’anno, ai quali si potrà dunque attingere per soddisfare la liquidazione dei compensi maturati per le prestazioni professionali rese dai difensori delle parti meno abbienti.
Inoltre, nell’ottobre 2020, con l’accreditamento effettuato da parte del Ministero dell’Economia e Finanze, si sono rese disponibili le risorse finanziarie necessarie a saldare interamente il debito per le spese di giustizia relativo al 2019, pari a 92 milioni di euro.
Per effetto di tale disponibilità, il Ministero della Giustizia ha diramato una circolare a tutti gli Uffici giudiziari, comunicando di avere provveduto all’emissione degli ordini di accreditamento a saldo delle esposizioni debitorie, con l’invito ad adottare ogni intervento organizzativo dal punto di vista amministrativo-contabile e a profondere il massimo sforzo possibile per consentire il tempestivo pagamento agli aventi diritto, così da evitare ulteriormente l’allungamento dei tempi.
L’importo complessivo stanziato è frutto di più provvedimenti adottati nel corso dell’anno: 20 milioni dal cd. decreto rilancio (decreto-legge n. 34/2020), 35 milioni attraverso la legge di assestamento (legge n. 128/2020) ai quali si aggiungono 37 milioni prelevati dal Fondo di riserva per le spese obbligatorie e d’ordine.
Si attende ora di vedere gli effetti di tali provvedimenti nella concreta attività degli uffici periferici di Corti e Tribunali.
Riportiamo al seguente link l’articolo di ItaliaOggi che raccoglie l’intervista.
Alberto Vigani
per Associazione Art. 24 Cost.
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