REDDITO DI CITTADINANZA E GRATUITO PATROCINIO: ALLE SEZIONI UNITE
Reddito di cittadinanza, alle sezioni Unite la decisione se è penalmente rilevante per le omissioni nelle dichiarazioni ininfluenti sul diritto al beneficio.
La Cassazione ha rinviato alle sezioni Unite il contrasto di sentenze inerente la rilevanza dell’omissione di dati sul reddito nell’autocertificazione con cui si chiede il reddito di cittadinanza, nel caso in cui tale omissione non ha determinato un’indebita percezione dello strumento di sostegno al reddito.
Si dovrà quindi rispondere ai seguenti quesiti:
“se integrano il delitto di cui all’art. 7 d.l. 28 gennaio 2019 n. 4, convertito
con modificazione nella legge 28 marzo 2019 n.26:
- le false indicazioni od omissioni di informazioni dovute, anche parziali, dei
dati di fatto riportati nell’autodichiarazione finalizzata all’ottenimento del
reddito di cittadinanza, indipendentemente dalla effettiva sussistenza
delle condizioni di reddito per l’ammissione al beneficio, ovvero - sSe il mendacio o le omissioni dichiarative rilevino nei soli casi in cui
l’intento dell’agente sia solo quello di conseguire, per il tramite delle
stesse, un beneficio altrimenti non dovuto“.
Vedi anche qui.
Alberto Vigani
per Associazione Art. 24 Cost.
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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
TERZA SEZIONE PENALE
UP 11/10/2022
R.G.N. 14512/22
ORDINANZA
sul ricorso proposto da avverso la sentenza in data 11.1.2022 della Corte di Appello di Salerno
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Donatella Galterio;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale
Dott. Gianluigi Pratola, che ha concluso per l’annullamento con rinvio della
sentenza impugnata;
udito il difensore, avv. i, che ha concluso sollecitando l’invio della questione alle Sezioni Unite, ovvero chiedendo l’accoglimento del ricorso
RITENUTO IN FATTO
1.Con sentenza in data 11.1.2022 la Corte di Appello di Salerno ha
integralmente confermato la condanna alla pena di due anni e due mesi di
reclusione disposta all’esito del primo grado di giudizio dal Tribunale di Nocera
Inferiore nei confronti di ritenuto responsabile del reato di cui agli
artt. 640, secondo comma cod. pen. e 7 d.l. 4/2019 per aver attestato nella
dichiarazione ISEE un valore del proprio patrimonio immobiliare, stante l’omessa indicazione della quota del 50% di sette terreni in comproprietà con il coniuge quantificabile in oltre 22.000 euro, inferiore a quello reale al fine di ottenere indebitamente il reddito di cittadinanza, così inducendo in errore l’INPS che gli erogava in forza di tale dichiarazione la somma di € 4.431,78 a titolo di
integrazione del reddito familiare riferito all’anno 2019 e procurandosi l’ingiusto
profitto derivante dall’indebita percezione del sussidio.
In particolare, entrambi i giudici di merito hanno ritenuto il reato integrato ancorchè i valori omessi non impedissero, secondo la difesa, l’erogazione del beneficio, sul presupposto che il perfezionamento della fattispecie delittuosa si realizza per il sol fatto di aver portato all’attenzione dell’amministrazione erogatrice del reddito di cittadinanza dati non veritieri.
2. Avverso il suddetto provvedimento l’imputato ha proposto, per il tramite
del proprio difensore, ricorso per cassazione articolando tre motivi di seguito
riprodotti nei limiti di cui all’art. 173 disp.att. cod.proc.pen..
2.1. Con il primo motivo lamenta, in relazione al vizio di violazione di legge
riferito agli artt. 7 d.l. 4/2019 e 42 e 43 cod. pen. e al vizio motivazionale, la
mancanza dell’elemento soggettivo non essendovi alcun elemento che consentisse
di ritenere che l’intenzione dell’imputato fosse quella di ottenere attraverso la falsa dichiarazione un beneficio altrimenti non dovuto, posto che anche dichiarando il valore immobiliare omesso avrebbe avuto comunque diritto al sussidio.
Deduce che il reato ex art. 7 primo comma d.l. 4/2019 è reato di pura condotta caratterizzato dal dolo specifico, censurando conseguentemente la sentenza impugnata per aver messo in diretta correlazione l’incompleta dichiarazione ISEE con il fine di ricevere il reddito di cittadinanza senza aver compiuto i necessari approfondimenti in ordine alla consapevolezza e volontarietà della contestata omissione.
Invoca ad ogni buon conto la diversa interpretazione della norma seguita da questa stessa Corte nella sentenza n.44366 del 2021 che ha affermato, in un caso similare a quello oggetto del presente procedimento, che la rilevanza penale della condotta, dovendosi informare al principio dell’offensività concreta, deve ritenersi sussistente nei soli casi in cui l’intenzione dell’agente sia quella di conseguire attraverso dichiarazioni false o incomplete un beneficio altrimenti non dovuto, lamentando che la Corte di merito non avesse prestato a tale pronuncia alcuna attenzione limitandosi ad esprimere un asettico giudizio di non pertinenzialità con il caso in esame.
2.2. Con il secondo motivo deduce, in relazione al vizio di violazione di legge
riferito all’art 640, secondo comma n.1) cod. pen. e al vizio motivazionale, che si
imponeva per i giudici del secondo grado la ricostruzione della responsabilità
dell’imputato per il reato di truffa, espressamente contestato dalla difesa in
relazione alla sussistenza degli elementi costitutivi, ovverosia alla configurabilità
degli artifici e dei raggiri.
Rileva come, essendo demandata all’Amministrazione la verifica del possesso dei requisiti in capo all’istante per la concessione del beneficio reddituale, la dichiarazione ISEE resa dall’imputato non potesse ritenersi suscettibile di produrre in automatico alcuna conseguenza in ordine all’erogazione del reddito richiesto e, come tale di per sé ingannevole, rientrando nei poteri dell’autorità erogante quello, all’esito delle necessarie verifiche sulla completezza dei dati indicati dal richiedente, di rigettare la domanda.
2.3. Con il terzo motivo contesta, in relazione al vizio di violazione di legge
riferito all’art. 177 cod. civ. e al vizio motivazionale, che la mancata menzione
delle quote in comproprietà con il coniuge costituisca omissione rilevante
trattandosi di beni che non rientrano nel patrimonio personale del dichiarante.
Lamenta che la relativa questione, non adeguatamente affrontata dal giudice di
primo grado, fosse stata integralmente tralasciata dalla Corte di appello.
3. Con successiva memoria trasmessa successivamente alla requisitoria del
Procuratore Generale che ha concluso per l’annullamento con rinvio, la difesa ha
ulteriormente sviluppato i primi due motivi di ricorso rilevando, quanto al primo,
che in tanto può ritenersi configurabile l’elemento intenzionale del reato ex art. 7
primo comma d.l. 4/2019 in quanto non sussistano le condizioni in capo all’istante per accedere al beneficio e si verta perciò in ipotesi di illegittimo godimento del medesimo, venendo altrimenti meno l’obbligo di trasmissione delle verifiche compiute dagli organi amministrativi all’autorità giudiziaria e, quanto al secondo, che in mancanza di un danno per l’amministrazione causalmente collegato alla dichiarazione non veritiera, non sia ravvisabile il reato di truffa, essendo stata l’erogazione del reddito di cittadinanza riconosciuta all’imputato in ragione delle sue effettive condizioni economiche. Ha concluso chiedendo la rimessione alle Sezioni Unite della questione relativa al reato ex art. 7 I. 26/2019 in presenza di dichiarazione non veritiera allorquando sussistano comunque i requisiti per l’ammissione al beneficio, ovvero l’accoglimento del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.La questione posta dalla difesa all’attenzione di questa Corte con il primo
motivo di ricorso si incentra sulla configurabilità del reato di cui all’art. 7, d.l. 28
gennaio 2019, n. 4, convertito con modificazioni nella legge 28 marzo 2019, n. 26
allorquando nella dichiarazione finalizzata al conseguimento del reddito di
cittadinanza ve patrimoniale con valori inferiori a soglie prefissate in relazione all’indicatore della
situazione economica equivalente (ISEE) per l’accesso al beneficio, chiarendo
nell’art. 3 le componenti del beneficio, suscettibile di variazione in ragione dei
componenti del nucleo familiare, di eventuali disabilità sofferte da costoro e del
reddito familiare, unitamente alle modalità e al periodo di erogazione, fermo
restando che, a prescindere dagli esiti del conteggio, l’emolumento percepibile non può eccedere il tetto massimo annuo di € 9.360,00 né andare al di sotto di quello minimo di € 480,00 e prevedendo nel successivo art. 5 che il reddito suddetto è riconosciuto dall’INPS ove ne ricorrano le condizioni.
A tal fine è richiesta una dichiarazione da presentare all’amministrazione previdenziale da parte del richiedente il sussidio, attestante la sussistenza dei requisiti necessari e di eventuali circostanze rilevanti per la sua quantificazione.
Segue a tali disposizioni l’art. 7 che dispone al comma 1, che «salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, al fine di ottenere indebitamente il beneficio di cui all’articolo 3, rende o utilizza dichiarazioni o documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero omette informazioni dovute, è punito con la reclusione da due a sei anni» e, al comma 2, che «l’omessa comunicazione delle variazioni del reddito o del patrimonio, anche se provenienti da attività irregolari, nonché di altre informazioni dovute e rilevanti ai fini della revoca o della riduzione del beneficio entro i termini di cui all’art. 3, commi 8, ultimo periodo, 9 e 11, è punita con la reclusione da uno a tre anni».
Ciò premesso, la casistica di interesse può essere così sintetizzata: a)
mendacio per totale assenza dei requisiti; b) mendacio per ottenere un beneficio
maggiore rispetto al dovuto; c) mendacio che non incide sull’ammontare del
beneficio.
2. Va ciò nondimeno rilevato che sull’interpretazione del primo comma
dell’art. 7 tale norma si registrano due opposti orientamenti espressi da questa
Corte di legittimità.
2.1. Secondo un primo indirizzo, cui ha dato l’avvio la pronuncia n. 5289/2020
della Terza Sezione, integrano il delitto in esame le false indicazioni od omissioni
di informazioni dovute, anche parziali, dei dati di fatto riportati nell’autodichiarazione finalizzata all’ottenimento del reddito di cittadinanza,
indipendentemente dalla effettiva sussistenza delle condizioni di reddito per
l’ ammissione al beneficio (Sez. 3, Sentenza n. 5289 del 25/10/2019, Sacco, Rv.
278573). Nel richiamare in termini di analogia l’art. 95 del d.P.R. n. 115 del 2002
e con esso i principi formatisi in applicazione della normativa in materia di
ammissione al patrocinio giudiziario a spese dello Stato dei soggetti non abbienti,
ritenendosi che in entrambi i casi si tratti di norme dirette a sanzionare la
violazione del dovere di lealtà del cittadino verso l’amministrazione che eroga una
provvidenza in suo favore e non prevedono, perciò, la necessità di accertare la
sussistenza in concreto dei requisiti reddituali di legge, si è affermato che la norma ngano dal richiedente riportate false indicazioni, ovvero vengano
omesse informazioni rilevanti, in ordine alla sua condizione patrimoniale e
reddituale indipendentemente dalla loro rilevanza ai fini del superamento delle
soglie fissate ex lege per il conseguimento del beneficio.
Va premesso, ai fini del puntuale inquadramento della questione, che il d.l.
28 gennaio 2019 n. 4, convertito con modificazioni nella L. 26/2019, ha istituito
il reddito di cittadinanza quale misura fondamentale di politica attiva del lavoro a
garanzia di tale diritto, di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale, indicando nell’art. 2 i requisiti sia soggettivi (riferiti a
cittadinanza, residenza e soggiorno) che oggettivi, ovverosia di tipo reddituale e
di cui all’art. 7 d.l. 4/2019 è espressione del generale principio antielusivo che si
incardina sulla capacità contributiva ai sensi dell’art. 53 della Costituzione, la cui
ratio risponde al più generale principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 della
Costituzione: inquadramento questo dal quale discende che la punibilità del reato
di condotta debba rapportarsi, ben oltre il pericolo di profitto ingiusto, al dovere di trasparenza e leale cooperazione nei confronti delle istituzioni da parte del
cittadino, cui non è lasciata la scelta tra cosa dichiarare e cosa omettere. Ciò
emerge anche dai successivi commi dell’art. 7, che disciplinano un’ampia casistica
di fattispecie di revoca, decadenza e sanzioni amministrative, e della locuzione “al
fine di ottenere indebitamente il beneficio”, da intendersi come diretta a qualificare i dati che sono in sé rilevanti ai fini del controllo, da parte della amministrazione erogante, della ricorrenza delle condizioni per il riconoscimento ed il mantenimento del beneficio.
A tale pronuncia hanno fatto seguito altre decisioni non massimate (Sez. 2,
n. 2402 del 5/11/2020, dep. 2021, Giudice; Sez. 3, n. 30302 del 15/9/2020,
Colombo; Sez. 3, n. 33808 del 21/4/2021, Casà; Sez. 3, n. 5309 del 24/9/2021,
Tuono; Sez. 3, n.1351 del 25.11.2021, Lacquaniti) che si pongono nello stesso
solco interpretativo, riaffermando che le fattispecie incriminatrici previste dall’art. 7 del decreto-legge n. 4 del 2019, in quanto reati di pericolo, trovano applicazione indipendentemente dall’accertamento del superamento delle soglie reddituali di legge.
2.2. Tale orientamento è stato tuttavia posto in discussione da altra
ampiamente argomentata sentenza, pronunciata anch’essa dalla Terza Sezione,
che ha invece ritenuto che integrino il reato in esame le false indicazioni dei dati
di fatto riportati nell’autodichiarazione finalizzata all’ottenimento del “reddito di
cittadinanza” o le omissioni, anche parziali, di informazioni dovute, solo se
strumentali al conseguimento del beneficio, cui altrimenti non si avrebbe diritto
(Sez. 3, Sentenza n. 44366 del 15/09/2021, Gulino, Rv. 282336 – 01).
Muovendo proprio dal raffronto tra la disciplina in materia di gratuito
patrocinio (art. 95 del d.P.R. n. 115 del 2002) che mai richiama una finalità
ulteriore rispetto alla mera consapevolezza e volontà di rendere una falsa
dichiarazione, e la norma de qua che richiede, invece, che attraverso tale condotta
si sia perseguito il fine di accedere “indebitamente” ad un beneficio, si afferma che attraverso l’espresso utilizzo dell’avverbio suddetto il legislatore abbia inteso “fare riferimento non tanto ad una volontà dell’agente di accesso al beneficio messa in atto non iure, cioè in assenza degli elementi formali che avrebbero consentito l’erogazione, quanto ad una volontà diretta ad un conseguimento di esso contra jus, cioè in assenza degli elementi sostanziali per il suo riconoscimento”.
Dal momento che quindi, secondo il ragionamento seguito dalla suddetta pronuncia, la norma in esame ha inteso tipizzare in termini di concretezza il pericolo che potrebbe derivare dalla falsità ovvero dalla omissività delle dichiarazioni presentate per il conseguimento del “reddito di cittadinanza”, così da doversi ad esse attribuire rilevanza penale nei soli casi in cui l’intenzione dell’agente era quella di un beneficio diversamente non dovuto, si arriva alla conclusione che debba ritenersi sempre necessaria una specifica indagine in ordine alla legittimità sostanziale dell’accesso del soggetto richiedente il beneficio, e dunque all’accertamento della effettiva sussistenza delle condizioni reddituali obbligatoriamente previste.
Gli stessi principi sono stati ripresi e ulteriormente sviluppati da un successivo
arresto della Seconda Sezione che ha affermato anch’esso che le condotte con cui
si rappresenti una situazione difforme da quella reale, senza però incidere sul
possesso effettivo dei requisiti richiesti per accedere alla misura di sostegno
economico, non possano essere considerate dall’art. 7 d.l. 4/2019 passibili di
sanzione penale (Sez. 2 n.29910 dell’8.6.2022, Pollara, non mass.).
Nell’escludere che la finalizzazione della condotta prevista dalla norma de qua possa ridursi alla verifica dell’atteggiamento psicologico tenuto dal soggetto agente, indipendentemente dall’idoneità della condotta nel perseguire l’obiettivo descritto dalla norma, ovverosia l’indebito ottenimento della prestazione, si è ritenuto più aderente non solo al dato letterale, che descrive l’elemento soggettivo della fattispecie secondo lo standard proprio del dolo specifico (“al fine di ottenere indebitamente il beneficio di cui all’articolo 3”), ma altresì ad una concezione del principio di offensività coerente con i canoni costituzionali la lettura della fattispecie incriminatrice in termini di reato di pericolo concreto, dovendosi apprezzare la capacità della condotta nell’incidere sulla rappresentazione, falsata e astrattamente idonea ad attribuire all’agente il possesso di requisiti mancanti per fruire della misura in esame.
A rafforzamento dell’opzione ermeneutica seguita, concernente cioè la sussistenza di un nesso funzionale tra le condotte lato sensu fraudolente e l’effettiva indebita percezione del sussidio statale, la suddetta pronuncia fa riferimento in termini testuali al sistema dei controlli e delle verifiche delle istanze di accesso alla misura, rilevandosi come l’obbligo di trasmissione all’autorità giudiziaria della documentazione amministrativa contenente i risultati delle verifiche condotte, posto a carico dei soggetti pubblici cui è affidata tale attività di vigilanza, sia previsto per le ipotesi in cui dalle dichiarazioni mendaci accertate sia derivato il “conseguente accertato illegittimo godimento del Rdc” (art. 7, comma 14, I. 26/2019, cit.).
3. Tale essendo il quadro giurisprudenziale di riferimento, il contrasto
interpretativo evidenziato si presenta, ad avviso di questo Collegio, meritevole di
essere esaminato dalle Sezioni unite penali in quanto involgente un profilo di
stretta attualità, che denuncia una situazione di incertezza interpretativa
potenzialmente foriera di ingiustificate causali disparità di trattamento.
E’ infatti evidente che la costruzione del delitto in esame come reato di
pericolo concreto ovvero soltanto presunto, muti radicalmente la prospettiva in
tema di rilevanza penale della condotta allorquando, così come si sostiene nel
presente ricorso, l’istante, pur avendo omesso di fornire all’ente erogante talune
delle informazioni richieste, possieda comunque i requisiti che lo rendono
ugualmente meritevole del beneficio.
Ove, infatti, la fattispecie criminosa venga ricondotta ad una species del genus
del reato di falso, secondo il primo degli orientamenti sopra riportati, la rilevanza
dell’omissione non può ritenersi esclusa dal possesso dei requisiti per l’accesso,
imponendo la ratio sottesa alla suddetta qualificazione giuridica di ritenere la
condotta integrata già con l’omissione di un qualsiasi dato rilevante ai fini del
controllo da parte dell’ente erogante, omissione nella quale si sostanzia l’elemento soggettivo consistente nel fine di ottenere indebitamente il beneficio, sufficiente in re ipsa ad integrare la volontà elusiva. Ed in tal senso le sentenze propugnatrici di tale interpretazione non esitano ad affermare l’identità di tale omissione con quella punita in materia di accesso al patrocinio a spese dello Stato della quale vengono mutuati i principi regolatori, nonostante in quella sede non venga richiesto alcun dolo specifico.
Una simile lettura potrebbe, tuttavia, generare qualche perplessità ove si
consideri che la sussistenza del semplice dolo generico, consistente nella
predisposizione sic et simpliciter di un’autodichiarazione mendace, oltre a non
confrontarsi con la formulazione testuale della norma, assorbe anche le ipotesi del falso cd. grossolano, tale cioè da escludere una sostanziale immutatio veri, ovvero del cd. falso innocuo ricorrente quando, secondo un giudizio da svolgersi ex ante, non v’era alcuna possibilità di offendere l’interesse protetto della fede pubblica, e lascia aperti margini di incertezza in tema di prova ove derivi da una semplice leggerezza ovvero da una negligenza dell’agente, non essendo contemplato dall’ordinamento vigente il falso documentale colposo.
Laddove invece l’asse interpretativo si sposti sulla previsione, testualmente
contemplata dall’art. 7, come attesta la locuzione “al fine di ottenere
indebitamente il beneficio”, del dolo specifico, la struttura della norma
incriminatrice si allinea, in conformità al secondo degli indirizzi passati in rassegna, a quella dei reati di pericolo concreto richiedendo quale ulteriore elemento per il suo perfezionamento l’indebito arricchimento dell’agente. Conseguentemente il movente elusivo, da elemento implicito nella condotta penalmente rilevante secondo il primo orientamento, si trasforma, secondo il secondo indirizzo, in movente di profitto che, operando da elemento di selezione, include fra le condotte penalmente rilevanti solo quelle atte ad ingenerare l’inganno dell’ente erogatore attraverso il riconoscimento del beneficio, escludendo tutte le altre che, pur apparentemente analoghe alle prime, non presentino tale ulteriore capacità.
Se, quindi, secondo tale impostazione occorre l’idoneità del mendacio o della falsa attestazione a determinare l’erogazione del sussidio reddituale, ne deriva, per converso, l’insufficienza, ai fini della rilevanza penale della condotta, della semplice omissione o falsa attestazione di dati ad opera del dichiarante, cui non faccia seguito in concreto il suo indebito arricchimento.
L’orientamento citato non chiarisce, tuttavia, in quali casi la condotta si
qualifichi contra jus o non jure.
La parificazione della condotta decettiva ad un tentativo di truffa, in cui si
sostanzia in ultima analisi l’interpretazione in disamina, lascia tuttavia aperto il
quesito relativo al ruolo rivestito dalla P.A., dovendo in tal caso stabilirsi se l’ente
erogatore resti l’artefice, nell’esercizio del suo potere decisionale implicante, prima ancora, un controllo sulla veridicità dei dati autocertificati, dell’atto dispositivo o, invece, non venga relegato in una posizione di mera inerzia, di soggetto cioè che non può sottrarsi al mendacio, essendo obbligato a darvi seguito. Quesito questo che, a seconda della risposta data, potrebbe portare a dubitare dell’utilità del dolo specifico ove si ritenga che l’ente debba adeguarsi a qualunque falsa rappresentazione della realtà, essendo obbligato solo a constatare il contenuto dell’autodichiarazione, perché in tal caso la concreta idoneità decettiva sarebbe sempre in re ipsa. Peraltro, la scelta interpretativa è condizione anche per l’individuazione di reati concorrenti o eventualmente assorbiti.
4. Tutto ciò premesso, è chiaro che l’opzione per l’uno o per l’altro dei due
riferiti indirizzi, porta a soluzioni tra loro contrastanti, conducendo nel primo caso ad una reiezione del ricorso e nell’altro, invece, ad un annullamento della
pronuncia impugnata occorrendo l’accertamento da parte del giudice di merito,
nella specie del tutto mancante, sull’accesso da parte dell’imputato,
indipendentemente dai dati omessi nell’autodichiarazione, al reddito di
cittadinanza ove gli stessi siano ininfluenti ai fini del superamento dei limiti di legge riferiti nel caso di specie al patrimonio immobiliare ed al conseguente valore definito a fini ISEE dall’art. 1, primo comma n.2) d.l. 4/2019, così come, in caso di accertamento positivo, sull’eventuale variazione dell’importo in concreto
erogabile per effetto degli elementi sottaciuti.
Si ritiene conseguentemente che sussistano i presupposti di cui all’art. 618
cod. proc. pen. per la rimessione della questione alle Sezioni Unite al fine di
rispondere ai seguenti quesiti:
“se integrano il delitto di cui all’art. 7 d.l. 28 gennaio 2019 n. 4, convertito
con modificazione nella legge 28 marzo 2019 n.26:
a) Le false indicazioni od omissioni di informazioni dovute, anche parziali, dei
dati di fatto riportati nell’autodichiarazione finalizzata all’ottenimento del
reddito di cittadinanza, indipendentemente dalla effettiva sussistenza
delle condizioni di reddito per l’ammissione al beneficio, ovvero
b) Se il mendacio o le omissioni dichiarative rilevino nei soli casi in cui
l’intento dell’agente sia solo quello di conseguire, per il tramite delle
stesse, un beneficio altrimenti non dovuto”.
P.Q.M.
Rimette il ricorso alle Sezioni Unite.
Così deciso in data 11.10.2022
Il Consigliere estensore
Donatella Galterio
Il Presidente
Giulio Sarno
Cassazione 2588/2023