Cassazione penenale, Sent. 10-02-2020, n. 5360: la revoca del gratuito patrocinio, per insussistenza delle condizioni di reddito richieste per l’ammissione, non fa venir meno il decreto di pagamento già pronunciato a favore del difensore e quindi il suo saldo da parte dell’erario.
Più precisamente: alla revoca ai sensi dell’art. 112, comma 1, lett. d) del provvedimento di ammissione al patrocinio a spese dello Stato non consegue altresì la inefficacia del decreto di liquidazione del compenso che l’autorità giudiziaria abbia emesso ai sensi dell’art. 82 del D.P.R. n. 115 del 2002, in costanza del provvedimento di ammissione, successivamente revocato” (Cass. Sez. 4, n. 17668 del 2019) ed ancora il principio affermato dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 192 del 24/09/2015, richiamato da Cass. Sez. 4, n. 21394 del 27/03/2019 , secondo cui “il potere di revoca e di modifica di liquidazione del compenso al difensore o all’ausiliario, oltre a non essere contemplato in nessuna disposizione della disciplina di riferimento (se non nell’ambito o all’esito del procedimento oppositivo), risulta del tutto incompatibile con la previsione (D.P.R. n. 115 del 2002, art. 170) di un termine perentorio concesso alle parti per opporsi al decreto di pagamento”.
Una volta che il decreto di liquidazione, in mancanza di opposizione, abbia esaurito i propri effetti e sia mandato in esecuzione, l’autorità che ha provveduto non può più in alcun modo intervenire: infatti, risulta per certo che il potere di “autotutela” è del tutto estraneo all’assetto normativo del D.P.R. n. 115 del 2002, nel quale anzi espressamente si prevede (art. 111) che in caso di revoca dell’ammissione al patrocinio le spese di cui all’art. 107 (fra le quali l’onorario e le spese agli avvocati – lett. f) sono recuperate nei confronti dell’imputato.
Come statuito dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 192/2015, il procedimento di liquidazione dei compensi, in caso di patrocinio a spese dello Stato, presenta carattere giurisdizionale e non si atteggia come una procedura amministrativa nella quale sia ammessa la revoca in autotutela dei provvedimenti considerati illegittimi o infondati, dovendosi invece procedere all’esperimento dei mezzi di impugnazione previsti dalla legge, ed altrimenti prendere atto della formazione di una preclusione processuale salva la eventualità che sia la stessa legge a prevedere la possibilità di revoca.
In altri termini, i provvedimenti di liquidazione non restano nella disponibilità del magistrato che li ha emessi, e sono emendabili solo in sede di (eventuale) impugnazione.
Riportiamo di seguito la scheda con la giurisprudenza di riferimento e la disciplina.
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ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI |
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Inerenti e conformi |
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[2. Il processo è quello speciale previsto per gli onorari di avvocato e l’ufficio giudiziario procede in composizione monocratica. ]
[3. Il magistrato può, su istanza del beneficiario e delle parti processuali compreso il pubblico ministero e quando ricorrono gravi motivi, sospendere l’esecuzione provvisoria del decreto con ordinanza non impugnabile e può chiedere a chi ha provveduto alla liquidazione o a chi li detiene, gli atti, i documenti e le informazioni necessari ai fini della decisione. ]
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REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. FUMU Giacomo – rel. Presidente –
Dott. DOVERE Salvatore – Consigliere –
Dott. TORNESI Daniela Rita – Consigliere –
Dott. ESPOSITO Aldo – Consigliere –
Dott. PICARDI Francesca – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sul ricorso proposto da:
B.S.;
avverso il decreto del 08/07/2019 della CORTE ASSISE APPELLO di NAPOLI;
udita la relazione svolta dal Presidente Dott. FUMU GIACOMO;
lette le conclusioni del P.G..
Svolgimento del processo
Motivi della decisione
Le Sezioni Unite di questa Corte hanno infatti affermato che in tema di patrocinio a spese dello Stato, il difensore, purché iscritto all’albo speciale dei patrocinanti davanti alle magistrature superiori, è legittimato a proporre personalmente il ricorso per cassazione avverso il provvedimento di liquidazione delle sue competenze professionali, emesso in sede di opposizione, in quanto la regola generale della rappresentanza tecnica nel processo penale (art. 613 c.p.p.) è eccezionalmente derogata, a favore dell’avvocato cassazionista, in virtù del rinvio formale che il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 170 opera, in tema di liquidazione di compensi professionali, alla speciale procedura prevista per gli onorari di avvocato dalla L. n. 794 del 1942, art. 29 e, indirettamente, alle disposizioni degli artt. 86 e 365 c.p.c.” (S.U., n. 6816 del 30/01/2007, Rv. 235344 e S.U. n. 6817 del 30/01/2007, Mulas, non massimata).
Da tale pronuncia – pur se riguardante fattispecie diversa rispetto a quella in esame e nonostante la modifica operata al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 170 dal D.Lgs. 1 settembre 2011, n. 150, – si trae dunque il principio generale secondo cui l’avvocato cassazionista, agendo nella specie come portatore di un proprio interesse patrimoniale nel processo penale, è abilitato all’autotutela e dunque è legittimato a proporre in proprio il ricorso per cassazione.
Questa Corte – come correttamente evidenziato dall’odierno ricorrente con precise citazioni – ha più volte recentemente e condivisibilmente affermato che la revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, per mancanza originaria o sopravvenuta delle condizioni di reddito previste dalla legge per fruire del beneficio, pur avendo efficacia retroattiva, non comporta l’inefficacia del decreto di pagamento emesso a favore del difensore prima della revoca del provvedimento di ammissione e quindi non travolge i diritti del difensore medesimo a vedersi liquidato il compenso per l’attività professionale già prestata.
Trattasi invero di due procedimenti collegati ma distinti, uno dei quali si conclude con il provvedimento giudiziale di liquidazione del compenso al professionista che per conto dello Stato ha svolto la propria attività in favore dell’assistito, provvedimento sottoposto ad un regime suo proprio di impugnazione.
Di conseguenza, una volta che il decreto di liquidazione, in mancanza di opposizione, abbia esaurito i propri effetti e sia mandato in esecuzione, l’autorità che ha provveduto non può più in alcun modo intervenire, essendo il potere di “autotutela” del tutto estraneo all’assetto normativo del D.P.R. n. 115 del 2002, nel quale anzi espressamente si prevede (art. 111) che in caso di revoca dell’ammissione al patrocinio le spese di cui all’art. 107 (fra le quali l’onorario e le spese agli avvocati – lett. f) sono recuperate nei confronti dell’imputato.
Ciò perchè, come statuito dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 192/2015, il procedimento di liquidazione dei compensi, in caso di patrocinio a spese dello Stato, presenta carattere giurisdizionale e non si atteggia come una procedura amministrativa nella quale sia ammessa la revoca in autotutela dei provvedimenti considerati illegittimi o infondati, dovendosi invece procedere all’esperimento dei mezzi di impugnazione previsti dalla legge, ed altrimenti prendere atto della formazione di una preclusione processuale salva la eventualità che sia la stessa legge a prevedere la possibilità di revoca.
Di qui l’annullamento senza rinvio del provvedimento impugnato.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio l’ordinanza impugnata.
Così deciso in Roma, il 5 febbraio 2020.
Depositato in Cancelleria
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Il procedimento di liquidazione dei compensi, in caso di patrocinio a spese dello Stato, presenta carattere giurisdizionale. Per tale ragione, non è ammessa la revoca in autotutela dei provvedimenti considerati illegittimi o infondati, dovendosi invece procedere all’esperimento dei mezzi di impugnazione previsti dalla legge, ed altrimenti prendere atto della formazione di una preclusione processuale (salva, naturalmente, la eventualità che sia la stessa legge a prevedere la possibilità di revoca). In altri termini, i provvedimenti di liquidazione non restano nella disponibilità del magistrato che li ha emessi, e sono emendabili solo in sede di (eventuale) impugnazione.
FONTI
Sito Il caso.it, 2015
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REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
– Alessandro CRISCUOLO Presidente
– Giuseppe FRIGO Giudice
– Paolo GROSSI ”
– Giorgio LATTANZI ”
– Aldo CAROSI ”
– Marta CARTABIA ”
– Mario Rosario MORELLI ”
– Giancarlo CORAGGIO ”
– Giuliano AMATO ”
– Silvana SCIARRA ”
– Daria de PRETIS ”
– Nicolò ZANON ”
ha pronunciato la seguente
Svolgimento del processo
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 2, della L. 8 luglio 1980, n. 319 (Compensi spettanti ai periti, ai consulenti tecnici, interpreti e traduttori per le operazioni eseguite a richiesta dell’autorità giudiziaria), dell’art. 106-bis del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia − Testo A), come introdotto dall’art. 1, comma 606, lettera b), della L. 27 dicembre 2013, n. 147 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato − legge di stabilità 2014), e dell’art. 1, comma 607, della L. n. 147 del 2013, promossi dal Tribunale ordinario di Grosseto con ordinanza del 14 marzo 2014 e dal Tribunale ordinario di Lecce con ordinanze del 21 e del 28 maggio e del 17 giugno 2014, rispettivamente iscritte ai nn. 121, 177 e 216 del registro ordinanze 2014 e al n. 14 del registro ordinanze 2015 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 30, 44 e 50, prima serie speciale, dell’anno 2014 e n. 8, prima serie speciale, dell’anno 2015.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio dell’8 luglio 2015 il Giudice relatore Nicolò Zanon.
1.- Con ordinanza del 14 marzo 2014 (r.o. n. 121 del 2014) il Tribunale ordinario di Grosseto, in composizione monocratica, ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 106-bis del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia − Testo A), come introdotto dall’art. 1, comma 606, lettera b), della L. 27 dicembre 2013, n. 147 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato − legge di stabilità 2014), nella parte in cui dispone la riduzione di un terzo dei compensi spettanti all’ausiliario del magistrato.
Il rimettente riferisce che, nell’ambito del giudizio a quo, gli imputati erano stati ammessi al patrocinio a spese dell’Erario. Poiché tuttavia tale ammissione non risultava al momento dagli atti, il provvedimento di liquidazione dei compensi in favore di un perito psichiatra era stato adottato, in data 14 febbraio 2014, secondo le tariffe ordinarie, cioè senza tener conto della diminuzione stabilita dall’art. 106-bis del Testo unico in materia di spese di giustizia. Il giudice a quo ritiene, di conseguenza, che il provvedimento di liquidazione dovrebbe essere modificato, riducendo l’entità del compenso. Prima di procedere in tal senso, tuttavia, il rimettente solleva l’odierna questione, sul presupposto che l’obbligatoria riduzione sarebbe prescritta in violazione dell’art. 3 Cost., ed in particolare dei principi di uguaglianza, ragionevolezza e proporzionalità.
Data la natura officiosa degli incarichi loro affidati, gli ausiliari del magistrato non si troverebbero in una posizione assimilabile a quella dei difensori, dei consulenti di parte o degli investigatori privati, essendo piuttosto in una condizione analoga a quella dei pubblici dipendenti che operano nel processo (magistrati, personale di cancelleria, agenti di polizia giudiziaria), la cui retribuzione non è certo condizionata, né razionalmente potrebbe esserlo, dall’intervento dell’Erario per il pagamento delle spese di patrocinio.
Una violazione del principio di uguaglianza si riscontrerebbe anche riguardo al trattamento discriminatorio introdotto tra ausiliari chiamati ad identiche prestazioni, in base al dato del tutto estrinseco dell’intervenuta ammissione di una parte del processo al patrocinio a spese dello Stato.
Vi sarebbe anche un più generale connotato di irrazionalità della disciplina, poiché la riduzione de qua interviene su criteri di computo già comunemente ritenuti inadeguati, per difetto, all’impegno richiesto per le prestazioni di perizia o di interpretariato. Sarebbe dunque aggravata la difficoltà, già molto seria, di coinvolgere soggetti professionalmente affidabili, nell’interesse della giustizia, al fine di procurare le necessarie prestazioni di consulenza.
Il giudice a quo sostiene che la questione sarebbe rilevante, perché dall’esito del giudizio incidentale discenderebbe la necessità, o non, del prospettato decreto di riduzione della somma liquidata. Dato il tenore univoco della disposizione censurata, d’altra parte, non vi sarebbero margini per una interpretazione adeguatrice che eviti l’effetto lesivo denunciato.
2.- È intervenuto nel giudizio, con atto depositato il 5 agosto 2014, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o, comunque, infondata.
Lo Stato avrebbe valutato nella cifra di circa 10 milioni di Euro il risparmio annuo determinato dalla norma censurata, la quale dunque sarebbe posta a tutela dell’equilibrio di bilancio, nel rispetto dei principi di cui agli artt. 81, primo comma, e 117, terzo comma, Cost. Inoltre, l’indicata riduzione di spese implicherebbe l’ampliamento delle possibilità di accesso al patrocinio, assecondando il principio solidaristico fissato all’art. 2 Cost.
La Corte costituzionale avrebbe già ritenuto infondate questioni poste riguardo ad una “fattispecie sostanzialmente analoga per materia”, concernente l’art. 9 del D.L. 24 gennaio 2012, n. 1 (Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della L. 24 marzo 2012, n. 27, con il quale è stata incisa la disciplina dei compensi liquidati ai difensori dall’autorità giudiziaria (ordinanza n. 261 del 2013).
D’altra parte – prosegue l’Avvocatura generale dello Stato – sarebbe impropria l’assimilazione, proposta dal rimettente, tra procedimenti nei quali vi sia stata ammissione al patrocinio a spese dello Stato e procedimenti diversi, come la giurisprudenza costituzionale avrebbe stabilito anche con specifico riferimento ai compensi professionali (sono citate le ordinanze n. 270 del 2012, n. 203 del 2010 e n. 195 del 2009).
3.- Con ordinanza del 21 maggio 2014 (r.o. n. 177 del 2014) il Tribunale ordinario di Lecce, in composizione collegiale, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale in rapporto a norme che disciplinano la liquidazione degli onorari spettanti agli ausiliari del giudice.
In particolare è dedotta, in riferimento agli artt. 3, 35, 36 e 53 Cost., l’illegittimità dell’art. 4, comma 2, della L. 8 luglio 1980, n. 319 (Compensi spettanti ai periti, ai consulenti tecnici, interpreti e traduttori per le operazioni eseguite a richiesta dell’autorità giudiziaria) – nella parte in cui determina in Euro 14,68 l’importo liquidabile per la prima vacazione, e in Euro 8,15 l’importo per le vacazioni successive – nonché dell’art. 106-bis del D.P.R. n. 115 del 2002 – come introdotto dall’art. 1, comma 606, lettera b), della legge n. 147 del 2013 – nella parte in cui dispone la riduzione di un terzo dei compensi spettanti all’ausiliario del magistrato.
3.1.- A titolo di premessa, ed in punto di rilevanza, il rimettente informa che deve procedere alla liquidazione dei compensi concernenti lo svolgimento di due incarichi di traduzione, e afferma che, nella specie, andrebbero riconosciute al traduttore tre vacazioni per ognuno degli incarichi assegnatigli, per un importo complessivo di Euro 61,96.
La somma indicata andrebbe ridotta di un terzo, e quindi fino ad Euro 41,30, in applicazione del nuovo art. 106-bis del D.P.R. n. 115 del 2002. Assume infatti il Tribunale che tale norma si applichi anche ai traduttori ed interpreti, in quanto ausiliari del giudice, ed a prescindere dall’essere o non riferita la loro prestazione ad un giudizio nel quale sia stata accolta una domanda di patrocinio a spese dello Stato. Nonostante la sua collocazione, infatti, la norma de qua avrebbe portata generale, dovendosi altrimenti attribuire al legislatore la scelta, incongrua, di modulare il compenso per prestazioni identiche sulla base di un elemento del tutto estrinseco, appunto l’intervento dell’Erario per il pagamento delle spese di patrocinio in favore del non abbiente.
3.2.- L’art. 4 della L. n. 319 del 1980 e l’art. 106-bis del D.P.R. n. 115 del 2002 contrasterebbero, come accennato, con gli artt. 3, 35, 36 e 53 Cost.
3.2.1.- Il giudice a quo assume che, pur essendo il traduttore chiamato ad una prestazione obbligatoria di ufficio pubblico (art. 143, comma 4, del codice di procedura penale), riconducibile ai doveri di solidarietà sociale evocati dall’art. 2 Cost. ed alla nozione di prestazione personale che può essere imposta dalla legge (art. 23 Cost.), la disciplina censurata eccederebbe i limiti di ragionevolezza nella individuazione di prestazioni esigibili in nome dell’interesse comune.
3.2.2.- La disciplina censurata, in particolare, creando una “classe di operatori economici” assoggettati ad un sistematico sfruttamento economico (dannoso anche in quanto limita l’attività libero professionale) – per di più posto in essere da quello Stato che dovrebbe assicurare invece una generalizzata tutela dei diritti del lavoro – implicherebbe anzitutto il denunciato contrasto con l’art. 35 Cost.
I compensi previsti dalla legge, pur riscontrando la natura pubblicistica dell’incarico, dovrebbero comunque rapportarsi alle tariffe professionali, e sarebbero tanto più inadeguati in forza della prescritta riduzione di un terzo.
3.2.3.- Gli anzidetti fattori di squilibrio tra qualità della prestazione richiesta e relativo compenso sono richiamati dal Tribunale anche per denunciare la violazione dell’art. 36 Cost.
Il rimettente afferma di non ignorare come la Corte costituzionale, con ripetute pronunce (sentenze n. 41 del 1996 e n. 88 del 1970), abbia escluso il contrasto tra l’art. 4 della L. n. 319 del 1980 e la norma costituzionale citata, sul presupposto della differenza tra prestazione lavorativa ed adempimento dell’ufficio pubblico, che in genere è solo occasionalmente conferito, con la conseguenza tra l’altro che non è possibile verificare l’incidenza della prestazione singolarmente compensata sul reddito nel complesso realizzato dal professionista.
Il Tribunale ritiene però che sussistano le condizioni per un superamento della giurisprudenza richiamata. L’aumentata richiesta di assistenza linguistica avrebbe implicato un forte incremento del ricorso ad interpreti e traduttori, molti dei quali, d’altra parte, avrebbero raggiunto un elevato grado di specializzazione, ed avrebbero finanche effettuato investimenti utili ad un più celere adempimento dell’ufficio. Gli incarichi, dunque, anche in virtù delle norme in tema di incompatibilità, sarebbero sempre meno saltuari, con riduzione del tempo disponibile per altre attività, ed un adeguato compenso per il forte impegno richiesto sarebbe ormai essenziale per assicurare una retribuzione compatibile con i diritti degli interessati.
La legge stessa – ripete il Tribunale – farebbe riferimento generale alle tariffe professionali per la determinazione delle somme dovute agli ausiliari, ed oltretutto ne imporrebbe un periodico adeguamento al costo della vita, mai attuato. Dal canto proprio, la Corte costituzionale, con la ordinanza n. 306 del 2012, avrebbe espressamente qualificato i compensi dovuti agli ausiliari come “retribuzione per il lavoro prestato”.
Insomma, prevedendo un compenso irrisorio per prestazioni altamente qualificate, le norme censurate contrasterebbero con gli artt. 35 e 36 Cost.
3.2.4.- Le norme in considerazione implicherebbero anche disparità di trattamento non giustificate, e quindi illegittime ex art. 3 Cost., non solo tra coloro che prestano opera professionale sul libero mercato e coloro che svolgono l’identica opera in quanto ausiliari del giudice. Anche all’interno di quest’ultima categoria, infatti, sarebbero stati recentemente introdotti trattamenti di maggior favore, con vacazioni commisurate sullo spazio di un’ora, e con compensi variabili tra 100 e 400 Euro. Il riferimento concerne le fattispecie regolate dagli artt. 39-quater e seguenti del decreto del Ministro della giustizia 20 luglio 2012, n. 140 (Regolamento recante la determinazione dei parametri per la liquidazione da parte di un organo giurisdizionale dei compensi per le professioni regolarmente vigilate dal Ministero della giustizia, ai sensi dell’articolo 9 del D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla L. 24 marzo 2012, n. 27), come introdotti con l’art. 3, comma 1, del decreto del Ministro della giustizia 2 agosto 2013, n. 106.
Per quanto voglia riconoscersi alle professionalità interessate dalla nuova normativa un valore particolarmente elevato – osserva il rimettente – anche la disciplina risultante dall’art. 4 della L. n. 319 del 1980 e dal decreto del Ministro della giustizia 30 maggio 2002 (Adeguamento dei compensi spettanti ai periti, consulenti tecnici, interpreti e traduttori per le operazioni eseguite su disposizione dell’autorità giudiziaria in materia civile e penale), richiamato dalla legge, è riferita a prestazioni specialistiche (ad esempio, perizie grafologiche e foniche, traduzioni, interpretariato), che sarebbero non legittimamente discriminate rispetto alle altre.
Alla disuguaglianza non potrebbe porsi rimedio con la disapplicazione del risalente decreto ministeriale, direttamente richiamato dalla legge. Quand’anche poi si ritenesse possibile il ricorso al criterio generale di liquidazione dei compensi per prestazioni d’opera o servizi, fissato nell’art. 2225 del codice civile, la retribuzione resterebbe incompatibile col principio di uguaglianza, perché necessariamente ridotta di un terzo in applicazione dell’art. 106-bis del citato D.P.R. n. 115 del 2002.
Il rimettente sostiene che la disciplina censurata ostacola il buon andamento dell’amministrazione della giustizia, poiché incentiva i migliori professionisti a sottrarsi con ogni possibile espediente all’ufficio loro conferito, e comunque spingerebbe gli ausiliari ad indicare in eccesso il tempo utilizzato per la propria prestazione, così aggravando gli oneri di controllo del giudice e determinando un sistema irrazionale, non compatibile con il principio di ragionevole durata del processo.
3.2.5.- La congenita inadeguatezza della disciplina primaria di computo dei compensi – aggravata, come sostiene il rimettente, per effetto dell’introduzione, nel D.P.R. n. 115 del 2002, del nuovo art. 106-bis, che impone la riduzione di un terzo degli onorari spettanti, tra l’altro, ai consulenti nominati dal giudice – determinerebbe altresì la violazione dell’art. 53 Cost.: verrebbero infatti perseguiti obiettivi di bilancio attraverso l’imposizione di oneri ad una parte soltanto dei contribuenti, senza alcun riguardo per la loro capacità contributiva.
4.- È intervenuto nel giudizio, con atto depositato l’11 novembre 2014, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili ovvero manifestamente infondate.
Sostiene l’Avvocatura generale – in primo luogo – che la materia della determinazione dei compensi da corrispondere per le prestazioni cui sono chiamati gli ausiliari del giudice sarebbe riservata alla discrezionalità legislativa, e non sarebbe dunque sindacabile, fuori del caso della manifesta irrazionalità. In tal senso si sarebbe più volte già pronunciata la stessa Corte costituzionale (sentenza n. 88 del 1970 e ordinanza n. 128 del 2002).
Queste stesse decisioni (cui si aggiunge la sentenza n. 41 del 1996) smentirebbero l’assunto presupposto alle questioni sollevate ex artt. 3, 35 e 36 Cost., e cioè che l’attività dell’ausiliario consista di una prestazione di lavoro. Sarebbe dunque impropria l’evocazione delle tariffe professionali quale metro di riferimento dei compensi. Resterebbe attuale, d’altra parte, l’impossibilità di valutare l’effettiva incidenza dei singoli contributi sull’intera attività professionale degli interessati, e quindi sui redditi complessivamente ricavati dalla medesima attività.
Anche la presunta violazione dell’art. 53 Cost. sarebbe già stata esclusa dalla giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 2 del 1981), trattandosi di prestazioni di facere prive di ogni attinenza alla capacità contributiva, e non giustificandosi l’affermazione del rimettente che la disciplina censurata scaricherebbe solo su alcune categorie di lavoratori i costi delle politiche di bilancio.
5.- Con ordinanza del 28 maggio 2014 (r.o. n. 216 del 2014) il Tribunale ordinario di Lecce, in composizione collegiale, ha sollevato plurime questioni di legittimità costituzionale in rapporto a norme che disciplinano la liquidazione degli onorari spettanti agli ausiliari del giudice.
In particolare, è dedotta l’illegittimità: 1) dell’art. 4, comma 2, della L. n. 319 del 1980, nella parte in cui determina in Euro 14,68 l’importo liquidabile per la prima vacazione, e in Euro 8,15 l’importo per le vacazioni successive; 2) dell’art. 106-bis del D.P.R. n. 115 del 2002, come introdotto dall’art. 1, comma 606, lettera b), della L. n. 147 del 2013, nella parte in cui dispone la riduzione di un terzo dei compensi spettanti all’ausiliario del magistrato; 3) dell’art. 1, comma 607, della citata L. n. 147 del 2013, nella parte in cui stabilisce che la disposizione di cui alla lettera b) del precedente comma 606 si applica alle liquidazioni successive alla entrata in vigore della stessa L. n. 147 del 2013, e dunque anche nei casi in cui la prestazione dell’ausiliario sia stata completamente espletata in epoca anteriore.
La terza delle norme censurate contrasterebbe con l’art. 3 Cost., mentre le altre due violerebbero il disposto degli artt. 3, 35, 36 e 53 Cost.
5.1.- A titolo di premessa, ed in punto di rilevanza, il rimettente informa che deve procedere alla liquidazione dei compensi concernenti lo svolgimento di dieci incarichi peritali ad opera di uno stesso soggetto, tutti consistenti in indagini grafologiche. La richiesta del perito è stata depositata ampiamente oltre il termine decadenziale di cui all’art. 71 del D.P.R. n. 115 del 2002. Il Tribunale, tuttavia, all’esito di una lunga disamina, conclude che il ritardo sarebbe nella specie dovuto a causa di forza maggiore (la malattia e la morte di un familiare dell’interessato), il che, anche per effetto di una interpretazione costituzionalmente orientata della disciplina, dovrebbe escludere l’intervenuta decadenza dal diritto alla liquidazione, con conseguente necessità per lo stesso Tribunale di valutare il merito della relativa domanda, esercitando una funzione propriamente giurisdizionale (idonea dunque alla proposizione dell’incidente di costituzionalità).
Sempre a titolo di premessa, dopo aver ricostruito il quadro normativo in materia, il rimettente afferma che nella specie andrebbero riconosciute al perito 110 vacazioni per ognuno dei dieci incarichi assegnatigli, per un importo complessivo che, al lordo della prescritta riduzione di un terzo, assommerebbe a 9.033,00 Euro, cui dovrebbe aggiungersi una piccola somma ulteriore per i tempi di trasferimento e permanenza presso gli uffici giudiziari.
Il compenso, secondo il rimettente, non sarebbe adeguato all’impegno profuso dal perito per l’espletamento degli incarichi. D’altra parte, pur essendosi gli incarichi anzidetti esauriti (compreso l’esame del perito in sede dibattimentale) prima dell’entrata in vigore della L. n. 147 del 2013, l’importo indicato dovrebbe essere ridotto di un terzo, portando la retribuzione oraria per le vacazioni successive alla prima sotto la soglia dei 3 Euro. Assume infatti il Tribunale che il menzionato art. 106-bis del D.P.R. n. 115 del 2002 dev’essere applicato “retroattivamente”, anche ai periti d’ufficio in quanto ausiliari del giudice, a prescindere dalla circostanza che la loro prestazione si riferisca ad un giudizio nel quale sia stata accolta una domanda di patrocinio a spese dello Stato. Nonostante la sua collocazione, infatti, la norma de qua dovrebbe essere interpretata nel senso della sua applicabilità a qualunque giudizio penale, poiché altrimenti si determinerebbe una ingiusta discriminazione tra gli ausiliari del magistrato, per prestazioni identiche, sulla base di un elemento del tutto estrinseco, appunto l’intervento dell’Erario per il pagamento delle spese di patrocinio in favore del non abbiente.
5.2.- L’art. 4 della L. n. 319 del 1980 contrasterebbe con gli artt. 3, 35, 36 e 53 Cost., per ragioni che il rimettente collega, in larga parte, anche agli effetti prodotti dalla riduzione dei compensi prescritta dall’art. 106-bis del D.P.R. n. 115 del 2002.
Riprendendo gli argomenti esposti nella propria precedente ordinanza (r.o. n. 177 del 2014), il Tribunale ordinario di Lecce rileva che l’inadeguatezza strutturale delle tariffe previste dalla legge sarebbe aggravata da due fattori concorrenti. Il primo consisterebbe nell’omissione degli adeguamenti periodici al costo della vita, che pur sono imposti dalla legge (e sono stati sollecitati dalla stessa Corte costituzionale). Il secondo, nella previsione del nuovo art. 106-bis del D.P.R. n. 115 del 2002, dal quale discende la necessità di ridurre di un terzo gli importi calcolati secondo la già deficitaria disciplina della L. n. 319 del 1980. L’indicata diminuzione non potrebbe giustificarsi per la natura pubblicistica del rapporto cui accede la prestazione, poiché di tale natura la legge già terrebbe conto, ex art. 50 del Testo unico, dettando i criteri di quantificazione primaria dei compensi dovuti agli ausiliari.
Si ribadisce, dunque, dal Tribunale, che la disciplina censurata darebbe vita ad una “classe di operatori economici” assoggettati ad un sistematico sfruttamento, proprio da parte dello Stato, con violazione concorrente degli artt. 35 e 36 Cost.
5.3.- Sempre riprendendo argomenti già svolti nella precedente ordinanza, il rimettente denuncia anche, e nuovamente, violazioni dell’art. 3 Cost., poiché l’art. 4, comma 2, della L. n. 319 del 1980 determinerebbe disparità di trattamento non giustificate tra coloro che prestano opera professionale sul libero mercato e coloro che prestano l’identica opera in quanto ausiliari del giudice. Inoltre, pur essendo applicabile anche a prestazioni di elevato livello specialistico, la stessa norma prevedrebbe compensi assai minori di quelli riconosciuti ad altri ausiliari del giudice, ai quali – secondo il Tribunale – si riferirebbero gli artt. 39-quater e seguenti del D.M. n. 140 del 2012, come introdotti con D.M. n. 106 del 2013.
Il rimettente esclude, anche in questo caso, la possibilità di disapplicare le tariffe previste dal D.M. 30 maggio 2002, e di nuovo afferma che, del resto, neppure il ricorso ai criteri di computo dell’art. 2225 cod. civ. garantirebbe agli ausiliari una retribuzione adeguata, data la necessaria riduzione di un terzo in applicazione dell’art. 106-bis del D.P.R. n. 115 del 2002.
5.4.- Il Tribunale insiste nell’assunto per cui la congenita inadeguatezza della disciplina primaria di computo dei compensi sarebbe stata aggravata dall’introduzione, nel D.P.R. n. 115 del 2002, del nuovo art. 106-bis. Tale ultima norma è posta ad oggetto di autonoma censura, anch’essa per il ritenuto contrasto con gli artt. 3, 35, 36 e 53 Cost., proprio in quanto non farebbe che aggravare i profili di illegittimità costituzionale che già connotano l’art. 4 della L. n. 319 del 1980.
Con specifico riguardo al denunciato art. 106-bis, il rimettente sottolinea poi l’asserita violazione dell’art. 53 Cost.: il legislatore avrebbe perseguito risparmi di bilancio scaricandone il costo su una limitata categoria di lavoratori, senza alcun riguardo alla loro capacità contributiva.
5.5.- Ancora, il Tribunale deduce la violazione dell’art. 3 Cost. con riguardo al comma 607 dell’art. 1 della L. n. 147 del 2013, ove sarebbe disposta l’efficacia retroattiva della prescrizione relativa alla diminuzione degli onorari peritali.
La norma infatti provocherebbe una discriminazione tra i periti che abbiano ultimato le proprie prestazioni prima della sua entrata in vigore, a seconda che il giudice abbia o non provveduto alla valutazione delle relative domande di liquidazione.
Inoltre, si tratterebbe di una disciplina sostanziale che produce effetti retroattivi su rapporti non di durata, e per ciò stesso suscettibile di indurre ingiustificate disparità di trattamento. È vero – osserva il Tribunale – che il principio della produzione di effetti solo per il futuro non assume illimitata valenza sul piano costituzionale, quando si tratti di leggi che incidono su rapporti di natura civile. Occorre tuttavia che l’effetto retroattivo non produca conseguenze irragionevoli, con frustrazione dell’aspettativa dei consociati nella stabilità delle situazioni giuridiche. In particolare, non sarebbe possibile regolare sfavorevolmente per il privato rapporti intrattenuti con la pubblica amministrazione (è citata la sentenza della Corte costituzionale n. 92 del 2013, relativa alla decurtazione con efficacia retroattiva dei compensi previsti per i custodi giudiziari). E ciò varrebbe a maggior ragione per i rapporti non di durata, nel cui ambito il privato abbia già svolto per intero la propria prestazione, e solo la controparte pubblica sia chiamata ad adempiere la propria obbligazione, che non potrebbe essere ridotta senza alcuna razionale giustificazione.
L’applicazione della giurisprudenza sulla tutela dell’affidamento, secondo il giudice a quo, non sarebbe preclusa dalla natura non negoziale del rapporto tra l’ausiliario del giudice e l’amministrazione pubblica. Per quanto obbligatoria, la prestazione non sarebbe del tutto priva di una base volontaristica, visto che deve essere normalmente richiesta a soggetti iscritti in appositi albi, nei quali sono stati inseriti su loro domanda: una domanda che sarebbe determinata, a sua volta, da una ragionevole aspettativa circa la convenienza economica dell’effettuazione di consulenze professionali in ambito giurisdizionale. Da questa valutazione, secondo il Tribunale, scaturirebbe comunque un affidamento tutelabile, pur nell’assenza di un negozio volontario quale causa prossima della prestazione in favore dello Stato.
La denunciata irragionevolezza sarebbe massima una volta riferita, addirittura, a prestazioni già completamente esaurite, come nella specie, prima della legge retroattiva.
6.- È intervenuto nel giudizio, con atto depositato il 23 dicembre 2014, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate manifestamente inammissibili ovvero infondate.
6.1.- In primo luogo. le questioni concernenti i commi 606 e 607 dell’art. 1 della L. n. 147 del 2013 sarebbero prive di rilevanza nel giudizio a quo. Erroneamente si sarebbe sostenuto, dal Tribunale, che la riduzione (retroattiva) di un terzo dei compensi riguardi anche i procedimenti non interessati da provvedimenti di ammissione al patrocinio a spese dell’Erario. La soluzione contraria sarebbe imposta dalla sede nella quale la nuova norma è stata inserita (cioè quella della disciplina del patrocinio per i non abbienti nel processo penale) e dalla stessa ratio dell’intervento di riforma, mirato a ridurre la spesa pubblica, dunque giustificato nei soli casi in cui le spese del procedimento, anziché essere poste a carico del condannato, sarebbero comunque sostenute dall’Erario.
6.2.- La finalità appena indicata renderebbe comunque conto, secondo l’Avvocatura generale, dell’infondatezza delle questioni sollevate. Sarebbe stato infatti perseguito, riducendo i compensi per tutti i soggetti che agiscono nell’ambito del processo penale concernente persone non abbienti, un “valore supremo”, cioè la necessità di contenere la spesa pubblica, ed in particolare quella, ormai asseritamente ingentissima, per il patrocinio a spese dell’Erario, da rendere comunque compatibile in un quadro di complessiva riduzione delle risorse disponibili per l’amministrazione della giustizia.
In tale quadro, la clausola di retroattività per la nuova riduzione del terzo, relativamente a compensi non ancora liquidati, sarebbe indispensabile per rendere concreto ed immediato il necessario risparmio di spesa. Non si tratterebbe, quindi, di una deroga irragionevole al principio di efficacia solo futura della legge.
Quanto alla pretesa sperequazione tra soggetti che avessero già presentato richiesta di liquidazione dei compensi nel momento di entrata in vigore della norma censurata, a seconda della maggiore o minore celerità dei giudici per l’adozione del relativo provvedimento, si tratterebbe di un inconveniente di mero fatto, non direttamente riconducibile alla disciplina censurata.
7.- Con ordinanza del 17 giugno 2014 (r.o. n. 14 del 2015) il Tribunale ordinario di Lecce, in composizione monocratica, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale in rapporto a norme che disciplinano la liquidazione degli onorari spettanti agli ausiliari del giudice.
In particolare è dedotta, in riferimento agli artt. 3, 36 e 53 Cost., l’illegittimità dell’art. 106-bis del D.P.R. n. 115 del 2002 – come introdotto dall’art. 1, comma 606, lettera b), della legge n. 147 del 2013 – nella parte in cui non subordina l’applicabilità della prevista riduzione di un terzo dei compensi spettanti all’ausiliario del giudice “all’effettivo adeguamento periodico delle tabelle relative …, previsto dall’art. 54 del D.P.R. n. 115 del 2002”.
È sollevata, inoltre, in riferimento agli artt. 3 e 53 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 607, della L. n. 147 del 2013, nella parte in cui, prevedendo l’applicazione del comma precedente per tutte le liquidazioni da effettuarsi dopo l’entrata in vigore della medesima legge, impone la riduzione di un terzo anche con riferimento a prestazioni professionali in tutto od in parte antecedenti alla legge medesima.
7.1.- A titolo di premessa, ed in punto di rilevanza, il rimettente informa che deve procedere alla liquidazione dei compensi concernenti lo svolgimento di una perizia sull’imputabilità della persona sottoposta a giudizio.
Il rimettente osserva che, nella specie, deve applicarsi l’art. 24 del D.M. 30 maggio 2002, e che, valutati i valori minimi e massimi previsti dalla disciplina, ed il pregio concreto dell’opera svolta dal perito, andrebbe liquidata la somma di 240,00 Euro, oltre ad altri 205,81 Euro di rimborso per spese previamente autorizzate (somministrazione di test psicologici). Sul primo importo dovrebbe applicarsi la riduzione di un terzo prevista dal nuovo art. 106-bis del D.P.R. n. 115 del 2002, sebbene la prestazione sia stata svolta per la gran parte (cioè con la sola eccezione dell’esame dibattimentale) prima dell’entrata in vigore della L. n. 147 del 2013, poiché la richiesta di liquidazione del compenso è intervenuta successivamente alla novella, e trova dunque applicazione il comma 607 dell’art. 1 della stessa L. n. 147 del 2013.
Le norme censurate sarebbero senz’altro applicabili nel caso di specie, posto che si procede nei confronti di persona già ammessa al patrocinio a spese dell’Erario.
7.2.- Il Tribunale ritiene che la prevista riduzione del compenso non possa trovare giustificazione nella natura pubblicistica del relativo incarico, posto che di tale natura la legge già tiene conto a livello di disciplina primaria dei criteri di determinazione, secondo il disposto dell’art. 50 del D.P.R. n. 115 del 2002.
È motivato dal rimettente, in primo luogo, il giudizio di non manifesta infondatezza del dubbio concernente l’efficacia “retroattiva” della previsione. È vero – si sostiene – che la giurisprudenza costituzionale ha ritenuto ammissibile la retroattività di disposizioni sopravvenute a regolare rapporti di natura civile; tuttavia, nella specie, sarebbe stato superato il limite della ragionevolezza e della necessaria tutela dell’affidamento nella sicurezza delle situazioni giuridiche (è citata, tra l’altro, la sentenza della Corte costituzionale n. 92 del 2013).
Non si sarebbe infatti in presenza di un rapporto di durata, ma di una prestazione già eseguita, completamente o per la gran parte, da un determinato soggetto, a fronte della quale interviene una norma che riduce la portata della prestazione dovuta dall’altra parte. Né la riduzione potrebbe essere giustificata nell’ottica di un recupero di proporzionalità, poiché anzi sussisterebbe l’esigenza opposta, visto che lo Stato, pure impegnato dalla legge ad effettuare adeguamenti triennali delle tabelle per i compensi agli ausiliari, sarebbe inadempiente in proposito da oltre 12 anni.
Non rileva, secondo il Tribunale, la fonte non negoziale della prestazione, e del resto quest’ultima non sarebbe del tutto priva d’un connotato di volontarietà, visto che gli incarichi peritali devono di norma essere conferiti a soggetti che siano stati iscritti, su loro domanda, in appositi albi.
7.3.- Riprendendo argomenti già svolti nelle precedenti ordinanze (r.o. n. 177 e n. 216 del 2014), il Tribunale ordinario di Lecce assume che la norma con la quale è imposta la riduzione di un terzo dei compensi per gli ausiliari del giudice confligge, in particolare, con gli artt. 3 e 36 Cost., anzitutto perché tali compensi diverrebbero inferiori, in misura non ragionevole, a quelli spettanti per identiche prestazioni, secondo i criteri di mercato. D’altra parte, sempre richiamando argomenti già svolti, il rimettente sostiene che dovrebbe essere superata la risalente giurisprudenza costituzionale sull’irrilevanza della materia nella prospettiva dell’art. 36 Cost., poiché, in ragione di mutamenti normativi e sociali, molti specialisti (anche psichiatri) sarebbero ormai impegnati in misura esclusiva o prevalente quali ausiliari del giudice, da ciò dovendo ricavare una retribuzione proporzionata alla qualità e quantità del lavoro prestato, e tale comunque da assicurare una esistenza libera e dignitosa.
La legge stessa – ripete il Tribunale – farebbe riferimento generale alle tariffe professionali per la determinazione delle somme dovute agli ausiliari, ed oltretutto ne imporrebbe un periodico adeguamento al costo della vita, mai attuato nonostante le sollecitazioni in tal senso della Corte costituzionale. Dal canto proprio quest’ultima, con la ordinanza n. 306 del 2012, avrebbe espressamente qualificato i compensi dovuti agli ausiliari come “retribuzione per il lavoro prestato”.
7.4.- Il Tribunale assume infine che, considerate insieme, le due norme censurate violerebbero anche l’art. 53 Cost. perché finalizzate al perseguimento di obiettivi di bilancio attraverso l’imposizione di oneri ad una parte soltanto dei contribuenti, senza alcun riguardo per la loro capacità contributiva.
8.- È intervenuto nel giudizio, con atto depositato il 17 marzo 2015, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o, comunque, infondate.
La finalità delle norme censurate sarebbe quella di realizzare un risparmio di spesa nell’ambito di procedimenti ove, in linea di tendenza, le stesse spese processuali si pongono a carico dell’Erario, invece che dell’eventuale condannato. Il contenimento della spesa pubblica sarebbe “valore supremo”, tale da legittimare l’intervento legislativo, anche data la dilatazione pregressa ed incontrollata degli oneri connessi al patrocinio a spese dello Stato.
La retroattività della previsione censurata non sarebbe irragionevole, in quanto diretta a provocare un risparmio immediato. Il trattamento eventualmente differenziato di ausiliari che avessero già richiesto la liquidazione dei compensi alla data di entrata in vigore della novella, a seconda che il giudice avesse o non provveduto sulle istanze, rappresenterebbe un inconveniente di fatto, non direttamente riconducibile alla disciplina denunciata (è citata la sentenza della Corte costituzionale n. 362 del 2008).
Motivi della decisione
1.- Con quattro distinte ordinanze, il Tribunale ordinario di Grosseto in composizione monocratica (r.o. n. 121 del 2014) e il Tribunale ordinario di Lecce in composizione monocratica (r.o. n. 14 del 2015) e collegiale (r.o. n. 177 e n. 216 del 2014), hanno sollevato questioni di legittimità costituzionale in relazione a norme che disciplinano, tra l’altro, la liquidazione degli onorari spettanti agli ausiliari del magistrato.
Sono censurate, in particolare, tre distinte disposizioni.
Anzitutto, è in questione l’art. 4, comma 2, della L. 8 luglio 1980, n. 319 (Compensi spettanti ai periti, ai consulenti tecnici, interpreti e traduttori per le operazioni eseguite a richiesta dell’autorità giudiziaria), nella parte in cui determina in Euro 14,68 l’importo liquidabile per la prima vacazione, e in Euro 8,15 l’importo per le vacazioni successive.
In secondo luogo, è censurato l’art. 106-bis del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia − Testo A), come introdotto dall’art. 1, comma 606, lettera b), della L. 27 dicembre 2013, n. 147 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato − legge di stabilità 2014), nella parte in cui dispone la riduzione di un terzo dei compensi spettanti, tra gli altri, agli ausiliari del magistrato.
Infine, è proposta questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 607, della L. n. 147 del 2013, nella parte in cui stabilisce che la disposizione di cui alla lettera b) del precedente comma 606 si applica alle liquidazioni successive all’entrata in vigore della stessa L. n. 147 del 2013, e dunque anche nei casi in cui la prestazione dell’ausiliario sia stata espletata in epoca anteriore.
1.1.- Il Tribunale ordinario di Lecce in composizione collegiale, con entrambe le proprie ordinanze, censura il citato art. 4, comma 2, della L. n. 319 del 1980 unitamente al pure citato art. 106-bis del D.P.R. n. 115 del 2002, prospettando la violazione di diversi parametri costituzionali.
Viene richiamato, anzitutto, l’art. 35 della Costituzione, poiché contrasterebbe con l’obbligo della Repubblica di tutelare il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni l’imposizione di prestazioni officiose remunerate con compensi modestissimi e comunque insufficienti, anche in quanto non adeguati periodicamente all’aumento del costo della vita, ed anzi, a partire dal 2014, ridotti nella misura di un terzo.
È poi richiamato l’art. 36 Cost., poiché la previsione censurata non assicurerebbe agli interessati una retribuzione proporzionata per qualità e quantità al lavoro prestato, e in ogni caso sufficiente a condurre un’esistenza libera e dignitosa.
È invocato, inoltre, l’art. 3 Cost., in quanto la previsione degli indicati compensi discriminerebbe irragionevolmente gli ausiliari del giudice rispetto a coloro che rendano prestazioni analoghe in base alle tariffe professionali di mercato, ed anche in quanto, tra gli stessi ausiliari del giudice, discriminerebbe coloro ai quali è applicabile la norma censurata rispetto alle categorie di consulenti cui si applica invece la disciplina dell’art. 39-quater e seguenti del decreto del Ministro della giustizia 20 luglio 2012, n. 140 (Regolamento recante la determinazione dei parametri per la liquidazione da parte di un organo giurisdizionale dei compensi per le professioni regolarmente vigilate dal Ministero della giustizia, ai sensi dell’articolo 9 del D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla L. 24 marzo 2012, n. 27), come introdotti con l’art. 3, comma 1, del decreto del Ministro della giustizia 2 agosto 2013, n. 106.
Lo stesso art. 3 Cost. sarebbe violato sotto un ulteriore profilo, poiché la previsione di onorari gravemente inadeguati – allontanando le migliori professionalità e rendendo nel complesso difficoltoso il reperimento di soggetti disponibili – intralcerebbe l’acquisizione delle prestazioni professionali degli ausiliari, prolungando i tempi di definizione dei processi e delle stesse procedure di liquidazione dei compensi (stante la possibile dilatazione dei tempi indicati per l’espletamento degli incarichi), così determinando una complessiva “irragionevolezza di sistema”.
È richiamato, infine, l’art. 53 Cost., poiché attraverso la normativa censurata sarebbero perseguiti obiettivi di bilancio, mediante l’imposizione di oneri ad una limitata categoria di lavoratori, senza alcun riguardo per la loro capacità contributiva.
1.2.- Il Tribunale ordinario di Grosseto (r.o. n. 121 del 2014), dal canto suo, censura il citato art. 106-bis del D.P.R. n. 115 del 2002, sempre nella parte in cui prescrive la riduzione di un terzo dei compensi per gli ausiliari del magistrato, in relazione all’art. 3 Cost., sotto tre diversi profili: da un primo punto di vista, in quanto irragionevolmente equiparerebbe gli ausiliari del giudice al difensore e alle parti del processo nella prevista riduzione di un terzo dei compensi; inoltre, in quanto irragionevolmente differenzierebbe il trattamento degli ausiliari, a parità di prestazioni, a seconda che prestino o non la propria opera in procedimenti in cui sia stata disposta l’ammissione di una parte al patrocinio a spese dell’Erario; infine, in quanto determinerebbe una complessiva irrazionalità della disciplina delle consulenze tecniche nel processo penale, aggiungendo una riduzione ai livelli già inadeguati dei compensi, e determinando quindi gravi difficoltà nell’acquisizione di prestazioni effettuate con scrupolo da soggetti professionalmente qualificati.
1.3.- Lo stesso art. 106-bis del D.P.R. n. 115 del 2002 è censurato anche dal Tribunale ordinario di Lecce in composizione monocratica (r.o. n. 14 del 2015), per l’asserito contrasto con l’art. 53 Cost., in quanto sarebbero perseguiti obiettivi di bilancio attraverso l’imposizione di oneri ad una limitata categoria di lavoratori, senza alcun riguardo per la loro capacità contributiva.
Con la medesima ordinanza, la norma in questione è ulteriormente sospettata d’illegittimità costituzionale, nella parte in cui dispone la riduzione di un terzo dei compensi spettanti all’ausiliario del magistrato senza che la previsione di questa decurtazione sia “subordinata all’effettivo adeguamento periodico delle tabelle relative ai compensi spettanti agli ausiliari del giudice, previsto dall’art. 54” dello stesso Testo unico: ciò avverrebbe in asserito contrasto con gli artt. 3 e 36 Cost., in quanto discriminerebbe, senza giustificazione, gli ausiliari del giudice rispetto a coloro che effettuano analoghe prestazioni sul libero mercato professionale, privando gli stessi ausiliari di una retribuzione proporzionata alla qualità e quantità del lavoro prestato, e comunque idonea ad assicurare loro un’esistenza libera e dignitosa.
1.4.- Infine, con due delle già citate ordinanze del Tribunale ordinario di Lecce (r.o. n. 216 del 2014 e n. 14 del 2015), è censurato l’art. 1, comma 607, della L. n. 147 del 2013, nella parte in cui stabilisce che le disposizioni del precedente comma 606, lettera b), si applichino alle liquidazioni successive alla data di entrata in vigore della stessa legge, e dunque con riguardo anche a prestazioni in tutto o in parte eseguite prima della legge medesima.
È qui prospettato, in particolare, un contrasto con l’art. 3 Cost., in quanto l’efficacia retroattiva della disposizione sostanziale che incide sul diritto alla remunerazione dei consulenti sarebbe disposta in assenza di una ragionevole giustificazione. La norma, inoltre, distinguerebbe irragionevolmente tra gli ausiliari che abbiano ultimato la propria prestazione ed avanzato richiesta di liquidazione dei compensi prima dell’entrata in vigore della L. n. 147 del 2013, a seconda che il giudice abbia o non tempestivamente provveduto sulla relativa domanda (r.o. n. 216 del 2014).
Infine, vi sarebbe violazione anche dell’art. 53 Cost., poiché sarebbero perseguiti obiettivi di bilancio attraverso l’imposizione di oneri ad una limitata categoria di lavoratori, senza alcun riguardo per la loro capacità contributiva (r.o. n. 14 del 2015).
2.- La sostanziale comunanza delle norme censurate, dei parametri costituzionali invocati, nonché dei profili e delle argomentazioni utilizzate, comporta che i giudizi vengano riuniti e decisi con unica pronuncia.
3.- Tutte le questioni sollevate dal Tribunale ordinario di Grosseto (r.o. n. 121 del 2014) vanno dichiarate inammissibili.
Come risulta dalla stessa ordinanza di rimessione, il Tribunale aveva già provveduto alla liquidazione dell’onorario per il perito psichiatra, dopo l’entrata in vigore della L. n. 147 del 2013, senza operare la diminuzione prescritta dal nuovo art. 106-bis del D.P.R. n. 115 del 2002, da quella introdotto. Ciò sarebbe avvenuto per un disguido concernente la formazione del fascicolo processuale, per effetto del quale, in sostanza, il Tribunale avrebbe ignorato, al momento della liquidazione, che nel procedimento in corso l’imputato era stato ammesso al patrocinio a spese dell’Erario.
Muovendo dal presupposto che proprio e solo tale circostanza implichi l’applicazione necessaria dell’art. 106-bis, il rimettente ritiene di dover procedere ad una revoca o modifica del provvedimento emesso, che definisce in vario senso, ma che comunque dovrebbe dar luogo ad una riduzione della somma liquidata. Dalla ritenuta necessità dell’intervento, il Tribunale desume quella dell’applicazione della norma censurata, che giudica illegittima per contrasto con l’art. 3 Cost.
È, tuttavia, manifesto che il provvedimento ipotizzato dal rimettente, quale condizione di rilevanza della questione sollevata, sarebbe illegittimo. La giurisprudenza ha da tempo chiarito che il procedimento di liquidazione dei compensi agli ausiliari presenta carattere giurisdizionale (il che, del resto, condiziona la possibilità stessa di sollevare, in tale sede, questioni di legittimità costituzionale: sentenza n. 88 del 1970). Per tale ragione, non è ammessa la revoca in autotutela dei provvedimenti considerati illegittimi o infondati, dovendosi invece procedere all’esperimento dei mezzi di impugnazione previsti dalla legge, ed altrimenti prendere atto della formazione di una preclusione processuale (salva, naturalmente, la eventualità che sia la stessa legge a prevedere la possibilità di revoca). In altri termini, i provvedimenti di liquidazione non restano nella disponibilità del magistrato che li ha emessi, e sono emendabili solo in sede di (eventuale) impugnazione.
Pur a fronte di una così vistosa preclusione del provvedimento programmato, il Tribunale rimettente ha omesso di proporre una qualsiasi motivazione a sostegno del superamento di quest’ultima, e, in definitiva, delle ragioni che avrebbero dovuto condurlo a fare applicazione della norma sospettata d’illegittimità costituzionale.
Ciò determina l’inammissibilità delle questioni sollevate, per mancata illustrazione dei presupposti interpretativi che implicano la necessità di applicare la disposizione censurata (ex multis, sentenze n. 18 del 2015 e n. 249 del 2010, ordinanza n. 95 del 2012).
4.- Tutte le questioni poste dal Tribunale ordinario di Lecce in composizione collegiale (r.o. n. 177 e n. 216 del 2014) sono a loro volta inammissibili, per difetto di rilevanza.
Come infatti risulta per tabulas dalle stesse ordinanze di rimessione, nei giudizi a quibus non vi è stata ammissione di alcuna parte processuale al patrocinio a spese dell’Erario. Per questo, non si deve fare applicazione della disposizione introdotta dall’art. 1, comma 606, lettera b) – cioè dell’art. 106-bis del D.P.R. n. 115 del 2002, che prevede che gli importi spettanti, tra gli altri, all’ausiliario del magistrato, siano ridotti di un terzo – né, conseguentemente, del successivo comma 607 dell’art. 1 della L. n. 147 del 2013, il quale stabilisce che la decurtazione ricordata si applichi alle liquidazioni successive alla data di entrata in vigore della stessa legge.
Sebbene il limite non risulti dal tenore letterale della norma censurata, la circostanza che l’obbligo di riduzione dei compensi operi con riguardo ai soli giudizi con patrocinio a carico erariale, come sostiene anche l’Avvocatura generale dello Stato nell’atto di intervento per il giudizio r.o. n. 216 del 2014, risulta da una serie univoca di argomenti.
In primo luogo, la disposizione censurata è stata inserita nel Titolo II della Parte III del D.P.R. n. 115 del 2002, che riguarda le “Disposizioni generali sul patrocinio a spese dello Stato nel processo penale, civile, amministrativo, contabile e tributario”, ed in particolare nel capo V, destinato a regolare la designazione, ad opera della parte ammessa, di “Difensori, investigatori e consulenti tecnici di parte”, e la relativa remunerazione.
In secondo luogo, il carattere peculiare della disposizione assume coerenza solo in rapporto ad una ratio di contenimento della spesa pubblica, che a sua volta si manifesta in termini di massima cogenza con riguardo ai procedimenti nei quali vi sia ammissione al patrocinio a carico erariale. L’ammissione al beneficio comporta infatti che alcune spese processuali siano gratuite (e che dunque i costi relativi siano direttamente sostenuti dall’Erario), e che altre siano anticipate dallo Stato (art. 107 del D.P.R. n. 115 del 2002), per restare definitivamente a carico del medesimo, a meno che il provvedimento di ammissione non venga revocato (art. 111 del Testo unico): ciò che ovviamente differenzia tali procedimenti rispetto a quelli “ordinari”, nei quali, in caso di condanna, le spese processuali sono poste a carico dell’imputato.
Si deve aggiungere che la disposizione censurata accomuna nel medesimo trattamento, da un lato, gli ausiliari del magistrato e, dall’altro, gli avvocati difensori, gli investigatori privati autorizzati ed i consulenti tecnici di parte. Per i professionisti del secondo gruppo un problema di liquidazione dei compensi si pone solo in sede di patrocinio a spese erariali, giacché, altrimenti, la retribuzione spetta al privato che richiede le relative prestazioni professionali. L’accostamento non avrebbe perciò senso, una volta trasportato fuori della peculiare dimensione data dall’intervento erariale nel procedimento.
Appare, dunque, non plausibile l’assunto dal quale muove il Tribunale rimettente, secondo cui sarebbe necessaria una sorta di interpretazione adeguatrice, ad evitare che si attribuisca al legislatore l’intento, asseritamente assurdo, di retribuire diversamente la stessa prestazione a seconda che sia intervenuta o non l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato.
L’inapplicabilità nei giudizi a quibus delle norme introdotte con la L. n. 147 del 2013 priva di rilevanza – e, comunque, di adeguato sostegno argomentativo in punto di non manifesta infondatezza – anche le censure che il Tribunale rimettente ha proposto riguardo all’art. 4, comma 2, della L. n. 319 del 1980, direttamente attribuendo alla medesima la regolazione dei compensi attualmente corrisposti per le prestazioni remunerate a tempo. Infatti, l’incompatibilità della disciplina delle vacazioni con i vari parametri costituzionali evocati è stata prospettata unicamente in ragione dell’incidenza del nuovo art. 106-bis sui valori in precedenza fissati.
5.- Restano da esaminare, a questo punto, le sole questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale ordinario di Lecce in composizione monocratica (r.o. n. 14 del 2015).
Il più volte citato art. 106-bis è censurato, per asserito contrasto con gli artt. 3 e 36 Cost., nella parte in cui dispone la riduzione di un terzo dei compensi spettanti all’ausiliario del magistrato, senza che tale previsione sia “subordinata all’effettivo adeguamento periodico delle tabelle relative ai compensi spettanti agli ausiliari del giudice, previsto dall’art. 54” dello stesso D.P.R. n. 115 del 2002.
5.1.- La questione, sollevata in questi peculiari termini, è fondata, con esclusivo riferimento all’art. 3 Cost.
In sede di giudizio di legittimità costituzionale, la ragionevolezza di un intervento legislativo ha da essere apprezzata anche alla luce del contesto normativo in cui avviene e delle condizioni che, di fatto, caratterizzano la materia e il settore sui quali è operato l’intervento stesso.
Nel caso di specie, è in questione un significativo e drastico intervento di riduzione dei compensi spettanti, tra gli altri, all’ausiliario del magistrato. L’intervento di riduzione è attuato con la legge di stabilità del 2014, ad opera di un legislatore che non poteva ignorare come si trattasse di compensi che, a norma dell’art. 54 del D.P.R. n. 115 del 2002, avrebbero dovuto essere periodicamente rivalutati.
A fronte di una disposizione legislativa, appunto l’art. 54 ora citato, che impone l’aggiornamento della misura degli onorari dei soggetti in questione, ogni tre anni, in relazione alla variazione, accertata dall’ISTAT, dell’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati, tale adeguamento non risulta essere intervenuto da oltre un decennio (allo stato, l’ultimo risulta operato con il decreto ministeriale 30 maggio 2002).
Sicché, dopo un decennio ed oltre di inerzia amministrativa, la base tariffaria sulla quale calcolare i compensi risulta ormai seriamente sproporzionata per difetto, anche a voler considerare, come richiede l’art. 50 del D.P.R. n. 115 del 2002, che la misura degli onorari in esame, rapportata alle vigenti tariffe professionali, dev’essere contemperata (e quindi ridotta) in relazione alla natura pubblicistica della prestazione richiesta (riduzione già attuata nella fissazione dei valori di partenza).
La mancata attuazione, in sede amministrativa, del vincolo di adeguamento previsto dalla fonte primaria (analoghe inadempienze, in passato, furono stigmatizzate da questa Corte: sentenze n. 41 del 1996 e n. 88 del 1970; ordinanze n. 234 del 2001 e n. 69 del 1979) ben può trovare idonei rimedi in altra sede (sentenza n. 41 del 1996 e ordinanza n. 234 del 2001).
Tuttavia, per il legislatore della legge di stabilità per il 2014, tale mancata attuazione costituiva un dato caratterizzante della materia che si apprestava ad incidere: e il non averne tenuto conto, nel momento in cui veniva deciso un significativo intervento di riduzione, induce a concludere, nella prospettiva segnata dall’art. 3 Cost., che la scelta legislativa abbia superato il limite della manifesta irragionevolezza.
Non è, infatti, riconducibile ai pur ampi margini spettanti alla discrezionalità legislativa una scelta attuata senza una preliminare valutazione complessiva della materia, necessaria per compiere un ragionevole bilanciamento tra esigenze di contenimento della spesa e remunerazione, sia pure secondo i ricordati criteri di contemperamento, degli incarichi in questione.
In tale prospettiva, va considerato come si tratti, nella specie, di prestazioni tendenzialmente non ricusabili dall’interessato, il quale, in quanto pubblico ufficiale, è obbligato alla fedele e diligente esecuzione delle proprie competenze professionali (ed è, questo, un profilo che differenzia l’ausiliario del magistrato dagli altri soggetti indicati nell’art. 106-bis in esame).
Si aggiunga, infine, che vanno adeguatamente apprezzate anche le ricadute “di sistema” di una disciplina che, nelle condizioni descritte, può favorire, per un verso, applicazioni strumentali o addirittura illegittime delle norme, a fini di adeguamento de facto dei compensi (ad esempio mediante un’indebita proliferazione degli incarichi o un pregiudiziale orientamento verso valori tariffari massimi), e, per l’altro, comportare un allontanamento, dal circuito dei consulenti d’ufficio, dei soggetti dotati delle migliori professionalità.
Risulta, in definitiva, manifestamente irragionevole un intervento di riduzione della spesa erariale in materia di giustizia – pur, come tale, sicuramente riferibile alla discrezionalità legislativa nel contesto della congiuntura economico-finanziaria – adottato senza attenzione a che la riduzione operi su tariffe realmente congruenti con le stesse linee di fondo del D.P.R. n. 115 del 2002: dunque su tariffe, da un lato, proporzionate (sia pure per difetto, tenendo conto del connotato pubblicistico) a quelle libero-professionali (che per parte loro, nell’ambito di una riforma complessiva dei criteri di liquidazione, sono state aggiornate) e, dall’altro, preservate nella loro elementare consistenza in rapporto alle variazioni del costo della vita.
Per queste ragioni, l’art. 106-bis del D.P.R. n. 115 del 2002, introdotto dall’art. 1, comma 606, lettera b), della L. n. 147 del 2013, è costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui non esclude che la diminuzione di un terzo degli importi spettanti all’ausiliario del magistrato sia operata in caso di applicazione di previsioni tariffarie non adeguate a norma dell’art. 54 del D.P.R. n. 115 del 2002.
È salva, naturalmente, l’eventualità che sopravvenga una complessiva ridefinizione della materia ad opera del legislatore, tale da implicare il superamento del meccanismo di adeguamento cui si riferisce la norma citata da ultimo.
6.- Quanto all’art. 1, comma 607, della L. n. 147 del 2013, che stabilisce che la decurtazione di un terzo dei compensi spettanti all’ausiliario del magistrato si applichi alle liquidazioni successive alla data di entrata in vigore della legge stessa, sono infondate, o manifestamente infondate, le censure in proposito sollevate dal Tribunale ordinario di Lecce in composizione monocratica (le sole che residuano).
6.1.- È infondata la questione proposta in riferimento all’art. 53 Cost.
Infatti, questa Corte ha già espressamente escluso che le manovre legislative sulla determinazione degli onorari da liquidare per prestazioni rese in ambito processuale abbiano attinenza con la materia regolata dalla norma costituzionale de qua.
In particolare, si è stabilito che “il principio della capacità contributiva contenuto nell’art. 53 non può trovare applicazione riguardo a prestazioni di “facere”, come quelle degli ausiliari del giudice, che non hanno palesemente alcuna attinenza con gli obblighi tributari” (sentenza n. 2 del 1981). Più recentemente, si è ribadito che “nel meccanismo attraverso il quale si procede alla liquidazione dei compensi spettanti al difensore che abbia difeso in giudizi diversi da quelli penali la parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato, e che comporta l’abbattimento nella misura della metà della somma risultante in base alle tariffe professionali, non è dato riscontrare alcuna forma di prelievo tributario, trattandosi semplicemente di una, parzialmente diversa, modalità di determinazione dei compensi medesimi – giustificata, per come dianzi dimostrato, dalla diversità, rispetto a quelli penali, dei procedimenti giurisdizionali cui si riferisce – tale da condurre ad un risultato economicamente inferiore rispetto a quello cui si sarebbe giunti applicando il criterio ordinario” (ordinanza n. 270 del 2012).
6.2.- È pure infondata la questione sollevata in riferimento all’asserita violazione dell’art. 36 Cost.
Va, sul punto, ribadita la giurisprudenza di questa Corte, per la quale tale parametro costituzionale è inconferente rispetto ai compensi per le prestazioni degli ausiliari: l’art. 36 Cost. “è male addotto, innanzitutto perché il lavoro svolto dai consulenti tecnici d’ufficio non si presta a rientrare in uno schema che involga un necessario e logico confronto tra prestazioni e retribuzione e quindi un qualsiasi giudizio sull’adeguatezza e sufficienza di quest’ultima”. Inoltre, l’art. 36 Cost. si riferisce alla complessiva percezione di reddito da parte del lavoratore, che, occupando una porzione ragionevole del proprio tempo e della propria capacità, deve trarre dalla sua attività il necessario per sostenere sé e la famiglia. Nel caso degli ausiliari del magistrato, che svolgono prestazioni occasionali, anche se ripetute, “non c’è modo di valutare in che misura quel lavoro giochi nella complessiva attività di coloro che in concreto lo svolgono e come i compensi per le relative operazioni (a parte l’impossibilità o difficoltà di coglierne la totale entità) concorrano alla formazione dell’intero reddito professionale del singolo prestatore” (sentenza n. 88 del 1970, richiamata dalla sentenza n. 41 del 1996).
Non persuadono le notazioni in senso contrario del Tribunale ordinario di Lecce (operate, peraltro, nell’ambito di ordinanze concernenti questioni irrilevanti), tese a dimostrare che l’attività officiosa sarebbe ormai, di fatto, la fonte dominante od anche solo prevalente del reddito di tutti gli ausiliari dei magistrati. Ammesso (ma non concesso) che siano ancorate a linee di tendenza effettivamente riscontrabili a livello locale e settoriale, esse non assurgono a dato di comune esperienza, tale da indurre questa Corte a modificare la giurisprudenza ricordata.
6.3.- Infine, non è fondata la questione sollevata in riferimento all’art. 3 Cost.
La ragionevolezza della norma va misurata sulla sua effettiva portata precettiva, come risultante, tra l’altro, dall’odierno intervento di questa Corte.
In primo luogo, alla luce di tale intervento, essa sarà dunque destinata ad operare esclusivamente su compensi aggiornati, secondo un’ordinaria verifica del quadro normativo condotta dal giudice procedente, che distinguerà, per ciascun caso concreto, tra compensi liquidabili in base a previsioni tariffarie non adeguate e fattispecie opposte, salva l’eventuale sopravvenienza di complessivi interventi di riforma ad opera del legislatore.
Inoltre, il rimettente pone una questione di legittimità costituzionale che, negli esiti auspicati, mira a rendere immuni dalla decurtazione le prestazioni professionali “in tutto od in parte” esaurite prima dell’entrata in vigore della disposizione censurata.
La questione potrebbe essere plausibilmente posta per le sole prestazioni del tutto esaurite, e sempreché non si ritenga applicabile il principio, già affermato dalla giurisprudenza comune in casi analoghi, della irrilevanza della norma sopravvenuta per liquidazioni che, pur disposte dopo la norma stessa, riguardino fattispecie completamente esaurite in precedenza (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 12 ottobre 2012, n. 17405). Se invece, come nel caso di specie, si tratta di prestazioni anche solo in parte rese dopo l’entrata in vigore della novella legislativa, risulta non certo irragionevole l’applicazione di un solo regime tariffario, cioè quello vigente al momento della liquidazione, di talché diverrebbe impropria la stessa attribuzione alla norma di effetti retroattivi (ordinanza n. 261 del 2013).
La questione dunque, considerati i limiti della sua rilevanza nel giudizio a quo, risulta non fondata in rapporto al parametro evocato.
P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 106-bis del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia − Testo A), come introdotto dall’art. 1, comma 606, lettera b), della L. 27 dicembre 2013, n. 147 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato − legge di stabilità 2014), nella parte in cui non esclude che la diminuzione di un terzo degli importi spettanti all’ausiliario del magistrato sia operata in caso di applicazione di previsioni tariffarie non adeguate a norma dell’art. 54 dello stesso D.P.R. n. 115 del 2002;
2) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 4, comma 2, della L. 8 luglio 1980, n. 319 (Compensi spettanti ai periti, ai consulenti tecnici, interpreti e traduttori per le operazioni eseguite a richiesta dell’autorità giudiziaria), e 106-bis del D.P.R. n. 115 del 2002, sollevate dal Tribunale ordinario di Lecce in composizione collegiale (r.o. n. 117 e n. 216 del 2014) e dal Tribunale ordinario di Grosseto in composizione monocratica (r.o. n. 121 del 2014), in relazione agli artt. 3, 35, 36 e 53 della Costituzione, con le ordinanze indicate in epigrafe;
3) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 607, della L. n. 147 del 2013, sollevata dal Tribunale ordinario di Lecce in composizione collegiale (r.o. n. 216 del 2014), in relazione all’art. 3 Cost., con l’ordinanza indicata in epigrafe;
4) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 607 della L. n. 147 del 2013, sollevate dal Tribunale ordinario di Lecce in composizione monocratica (r.o. n. 14 del 2015), in riferimento agli art. 3, 36 e 53 Cost., con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’8 luglio 2015.
Depositata in Cancelleria il 24 settembre 2015.
***
Presidente: FUMU GIACOMO
Relatore: BELLINI UGO
Data di pubblicazione: 29.04.2019
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
L.G.M
avverso l’ordinanza del 09/11/2018 del GIUDICE DI PACE di L’AQUILA
udita la relazione svolta dal Consigliere UGO BELLINI;
lette le conclusioni del PG il quale ha chiesto pronunciarsi la inammissibilità del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
L’esponente osserva che il giudicante ha esercitato una potestà non consentita dalla legge. Rileva che l’ordinamento non prevede che il giudice possa revocare il decreto di liquidazione, posto che il difensore è titolare di un diritto soggettivo patrimoniale. Il ricorrente sottolinea, al riguardo, che la disciplina dettata dal d.P.R. n. 115/2002 non contempla il potere di autotutela.
Sotto altro aspetto, il deducente rileva l’abnormità del provvedimento di revoca del decreto di liquidazione. A sostegno dell’assunto richiama la circolare in data 22 maggio 2018 del Ministero delle Finanze.
CONSIDERATO IN DIRITTO
La Corte regolatrice ha infatti ripetutamente affermato che in tema di patrocinio .a spese dello Stato, nel caso di revoca dell’ammissione al beneficio disposta su richiesta dall’amministrazione finanziaria – come nel caso di specie – l’interessato, ove non intenda proporre opposizione ai sensi dell’art. 99, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, ha la facoltà di ricorrere direttamente per cassazione, ai sensi dell’art. 113 d.P.R. cit., per violazione di legge (Sez. 4, Sentenza n. 11771 del 07/12/2016, dep. 10/03/2017, Rv. 269672).
E’ innanzitutto il caso di chiarire che il provvedimento di ammissione del cittadino al patrocinio dei non abbienti e il decreto di liquidazione compensi al difensore del soggetto ammesso, sebbene disciplinati nello stesso testo normativo, operino su due piani diversi e siano soggetti ad una disciplina del tutto autonoma, tali da escluderne presunzioni di interdipendenza ovvero di necessaria derivazione.
8.1 L’ammissione al patrocinio consente l’espansione del diritto del cittadino, che assume di trovarsi in condizione di non abbienza, al contributo economico dello Stato (mediante il meccanismo dell’anticipazione delle spese). La liquidazione operata dal giudice che procede, al culmine delle singole fasi processuali, soddisfa il diritto del difensore di essere corrisposto da parte di chi, al momento in cui la liquidazione viene eseguita, era tenuto ad adempiere la prestazione.
8.2 Non sussiste alcuna immedesimazione concettuale e collegamento funzionale tra i due momenti. L’uno attiene alla legittimazione a ricevere una prestazione da parte dello Stato in presenza di certi requisiti, mentre il secondo investe un meccanismo meramente liquidatorio (mandato di pagamento di una prestazione professionale eseguita a favore di soggetto ammesso al patrocinio).
8.3 La revoca del patrocinio consente all’Erario di opporre al beneficiario già ammesso e, pertanto al difensore di questi, la propria carenza di legittimazione a procedere alla liquidazione; ma una volta che la liquidazione sia intervenuta a favore di soggetto legittimato a riceverla sulla base di un titolo esecutivo inoppugnabile, questa risulta consolidata e non più suscettibile di revoca o di modifica.
9.1 Quanto al primo profilo va subito rilevato come l’art. 82 Dpr. 115/2002 stabilisce che l’onorario e le spese spettanti al difensore sono liquidati dall’autorità giudiziaria con decreto di pagamento….il decreto di pagamento è comunicato al difensore e alle parti, compreso il pubblico ministero”. “Avverso il decreto di pagamento del compenso al difensore…è ammessa opposizione ai sensi dell’art.170” (Art. 84 Dpr 115/2002). A norma dell’art.171 Dpr 115/2002 “il decreto di pagamento emesso da magistrato costituisce titolo di pagamento della spesa in tutte le fattispecie previste dal presente testo unico“.
9.2 In sostanza si è in presenza di un atto solutorio, di natura giurisdizionale, che costituisce titolo esecutivo e in relazione al quale è previsto uno speciale procedimento di opposizione, disciplinato dall’art.15 D.to Lgs. 1.9.2011 n.150 e il magistrato può, su istanza del beneficiario e delle parti processuali, compreso il pubblico ministero e quando ricorrono giusti motivi, sospendere l’esecuzione provvisoria del decreto con ordinanza non impugnabile (art.170 D.P.R.115/2012).
9.3 Orbene le sopra menzionate caratteristiche del decreto di pagamento e la previsione di uno specifico strumento impugnatorio contro di esso ha comportato la formulazione di una serie di riflessioni da parte del giudice di legittimità che nel caso in esame si prestano a considerazioni di assoluta pertinenza in chiave logico giuridico nel caso in esame.
9.4 In primo luogo il soggetto che promuove la richiesta di liquidazione del compenso a seguito di prestazioni rese a favore di soggetto ammesso al patrocinio a spese dello Stato risulta titolare di un diritto soggettivo patrimoniale, come risulta confermato dalla disciplina processualcivilistica dell’opposizione avverso il decreto di pagamento (Cass. Civ. sez.U, 3.9.2009 n.19161). Il decreto che accoglie la richiesta di liquidazione del compenso del difensore di soggetto ammesso al patrocinio a spese dello Stato ha pertanto natura decisoria e giurisdizionale e non risulta suscettibile di revoca o di modifica ufficiosa, posto che l’autorità giudiziaria che lo emette, salvi i casi espressamente previsti, consuma il proprio potere giurisdizionale (Cass.sez.VI – 2, Ordinanza 8.6.2012 n.13892 in motivazione; 16.5.2014 n.12795, Rv.631099-01; 18.1.2017 n.1196, Rv.642564-01) con riferimento al decreto di liquidazione di commissario giudiziale Cass.civ.19.10.2007 n.22010).
9.5 Inoltre il potere di revoca e di modifica del decreto di liquidazione del compenso al difensore o all’ausiliario, oltre a non essere contemplato in nessuna disposizione della disciplina di riferimento (se non nell’ambito o all’esito del procedimento oppositivo), risulta del tutto incompatibile con la previsione (art.170 Dpr 115/2002) di un termine perentorio concesso alle parti per opporsi al decreto di pagamento. Deve pertanto riconoscersi la estraneità all’assetto del Dpr 115/2002 del conferimento del generale potere di autotutela, tipico dell’azione amministrativa, all’autorità che ha provveduto (stessa giurisprudenza indicata al paragrafo precedente), soprattutto allorquando il provvedimento di liquidazione abbia esaurito i propri effetti, come nel caso in specie laddove il decreto non sia stato opposto e mandato in esecuzione. Sul punto è intervenuto anche il pronunciamento della Corte Costituzionale che ha statuito che il procedimento di liquidazione dei compensi, in caso di patrocinio a spese dello Stato, presenta carattere giurisdizionale. Per tale ragione non è ammessa la revoca in autotutela dei provvedimenti considerati illegittimi o infondati, dovendosi invece procedere all’esperimento dei mezzi di impugnazione previsti dalla legge, ed altrimenti prendere atto della formazione di una preclusione processuale (salva la eventualità che sia la stessa legge a prevedere la possibilità di revoca). In altri termini i provvedimenti di revoca non restano nella disponibilità del magistrato che li ha emessi, e sono emendabili solo in sede di (eventuale) impugnazione (Corte.Cost. ” 24.9.2015 n.192).
9.6 Dalla giurisprudenza del giudice di legittimità civile e della Corte Costituzionale risulta evidente che, in assenza di un procedimento oppositivo il giudice che procede, chiamato dall’Ufficio finanziario a rivalutare la sussistenza delle condizioni che avevano determinato l’ammissione dell’interessato al patrocinio a spese dello stato, non possa ufficiosamente elidere anche il provvedimento di liquidazione delle competenze del difensore da questi nominato che ha una propria genesi, un beneficiario diverso da colui che risulta ammesso al patrocinio, un fondamento giurisdizionale ed uno specifico strumento di impugnazione che non ammette l’esercizio di forme di autotutela.
10.1 L’art. 112 comma I lett. d) TU spese di giustizia prevede la revoca di ufficio su richiesta dell’ufficio finanziario competente del provvedimento di ammissione e, comunque, non oltre cinque anni dalla definizione del processo, se risulta la mancanza originaria e sopravvenuta delle condizioni di reddito di cui all’art.76 e 92. In tale ipotesi la revoca del decreto di ammissione ha efficacia retroattiva (art.114 comma II Dpr 115/2002) e le spese di cui all’art.107 sono recuperate nei confronti dell’imputato (addii. Dpr 115/2012).
10.2 Orbene se è lo stesso legislatore del TU spese di giustizia a prevedere che, in tutte le ipotesi di efficacia retroattiva della revoca del provvedimento di ammissione, il recupero debba intervenire nei confronti dell’imputato, risulta logico inferire, in accordo con le altre norme di sistema che disciplinano il provvedimento di liquidazione del compenso al difensore (e la sua opposizione), che quest’ultimo rimanga intangibile nei suoi caratteri di stabilità ed esecutività (salvo le eventuali opposizioni sull’an e sul quantum liquidatur presentate dalle parti).
10.3 Se il venire meno della tutela per i non abbienti determinasse anche l’automatica caducazione del decreto di pagamento dei compensi professionali (come è stato pure sostenuto da sez.IV, 1.2.2017 n.24965) non si spiegherebbe perché il legislatore, in relazione a prestazioni ormai eseguite e a onorari ormai liquidati, si sarebbe impegnato a promuovere il recupero delle spese anticipate verso la parte processuale (che si definisce peraltro incapiente) già ammessa al beneficio e non già verso il difensore che ha tratto vantaggio diretto dalla liquidazione. D’altro canto se la disposizione di cui all’art.111 TU spese di giustizia si riferisse alle ipotesi in cui il decreto di liquidazione non sia stato ancora pronunciato, la norma non avrebbe senso, in quanto sarebbe sufficiente rigettare la richiesta di liquidazione per carenza sopravvenuta di legittimazione alla riscossione piuttosto che promuovere il recupero nei confronti dell’imputato ammesso al patrocinio, a meno che non si voglia attribuire alle definizione “spese di cui all’art.107 TU” un significato palesemente marginale e ingiustificatamente restrittivo (art.107 comma II e comma III limitatamente alle indennità e alle spese di viaggio), interpretazione che contrasta con il testo della norma (che si riferisce all’art.107 TU) e alla circostanza che, tra le spese anticipate dallo stato, quelle indicate dal comma III lett. e), f) e g) fra cui appunto l’onorario e le spese di avvocato (lett.f) risultano le più ricorrenti ed onerose.
10.4 Va infine rilevato che se si dovesse accedere alla tesi secondo cui la revoca dell’ammissione al gratuito patrocinio determini altresì la inefficacia del titolo esecutivo costituito dal decreto di liquidazione, ne conseguirebbe che il patrocinatore liquidato si vedrebbe esposto per un periodo temporale assolutamente significativo (cinque anni dalla definizione del processo recita l’art. 112 comma I lett.d) ad un’azione di recupero da parte dell’Erario e ciò in contrasto con la chiara evidenza dell’addii TU spese di giustizia che impone il recupero verso l’imputato, al quale è revocata l’ammissione, e in violazione del diritto soggettivo patrimoniale di cui è titolare il difensore del cittadino non abbiente ammesso al patrocinio a spese dello Stato (per ipotesi di illegittimità della revoca della liquidazione dei compensi per l’opera prestata dal difensore in caso di espletamento dell’incarico già avvenuto, quando si riscontri successivamente che l’iscrizione del predetto professionista negli appositi elenchi sia avvenuta solo dopo la nomina e la liquidazione del compenso da parte del giudice Cass. Civ.sez.I, 30.5.2008 n.14594, Rv.603472-01).
P.Q.M.
Annulla senza rinvio l’ordinanza impugnata limitatamente alla revoca del decreto di liquidazione onorari del 27 Febbraio 2018 disposto in favore dell’avv.to G.M.L..
Così deciso il 14 Febbraio 2019
***
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DOVERE Salvatore – Presidente –
Dott. FERRANTI Donatella – rel. Consigliere –
Dott. BELLINI Ugo – Consigliere –
Dott. PEZZELLA Vincenzo – Consigliere –
Dott. RANALDI Alessandro – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
G.D., nato a (OMISSIS);
avverso l’ordinanza del 26/10/2018 del TRIBUNALE di VELLETRI;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott.ssa FERRANTI DONATELLA;
lette le conclusioni del P.G..
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
L’avvocato Serafini Claudia ha proposto ricorso avverso il decreto del Gip di Velletri che in data 26.10.2018 ha revocato, a seguito di informativa della Guardia di Finanza, il decreto di ammissione al gratuito patrocinio presentata da G.D. e conseguentemente provveduto all’annullamento del provvedimento di liquidazione degli onorari del 17.04.2018 e del mandato di pagamento registrato al n. 846/2018 mod.1/A/SG. 2. Lamenta violazione di legge e in particolare del D.P.R. n. 115 del 2002, artt. 82, 84, 170 richiamando il principio di diritto espresso dalla Suprema Corte con le sentenze Sez. 6^ civ.2.08.2012 n. 13892 e Sez. 6^ civ. 15.12.2017 n. 1196 secondo le quali il decreto che decide in merito al compenso ha natura decisoria e giurisdizionale e non è suscettibile di revoca o modifica di ufficio, posto che l’autorità giudiziaria che lo emette consuma il proprio potere giurisdizionale. Il potere di revoca è incompatibile con il termine perentorio, previsto dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 170 per effettuare l’opposizione al decreto.
4.1 E’ estraneo all’assetto del D.P.R. n. 115 del 2002 il conferimento del generale potere di autotutela tipico dell’azione amministrativa all’autorità Giudiziaria che ha già provveduto, in quanto il provvedimento di liquidazione del 17.04.2018 è divenuto esecutivo e non è revocabile ex officio (cfr. Sez. 4 n. 17668 del 14.2.2019).
4.2 Il Gip del Tribunale di Velletri ha erroneamente applicato il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 114 riconoscendo che la revoca dell’ammissione dell’assistito al patrocinio a spese dello Stato determina, in ragione dell’efficacia retroattiva di tale provvedimento, la caducazione del decreto con il quale, all’esito della richiesta di liquidazione compensi ai sensi dell’art. 82 TU spese di giustizia, al difensore dell’imputato, ammesso al beneficio, sono state riconosciute e liquidate le spettanze professionali. Il piano dell’ammissione coinvolge il diritto, costituzionalmente garantito, di assicurare ai non abbienti in ogni stato e grado del giudizio e dinanzi a qualsiasi giurisdizione il diritto di difesa, riconosciuto come inviolabile dalla Carta Costituzionale (art. 24, commi 1, 2 e 3). In particolare l’istituto del patrocinio a spese dello Stato risulta realizzato attraverso una serie di norme (D.P.R. n. 115 del 2002) che promuovono il principio di auto responsabilità del beneficiario, il quale è ammesso a presentare una istanza di ammissione che contiene una dichiarazione autocertificativa sulle condizioni di reddito e a produrre la eventuale documentazione richiesta dall’autorità giudiziaria (art. 79 TU in materia di spese di giustizia). I controlli previsti, sia quelli eventuali, delegati alla Guardia di Finanza, di rilievo preventivo (D.P.R. n. 115 del 2002, art. 96, comma 2), sia quelli successivi all’ammissione demandati necessariamente all’ufficio finanziario territorialmente competente (D.P.R. n. 115 del 2002, art. 98), risultano funzionali a riscontrare la ricorrenza dei requisiti reddituali previsti dalla legge per conservare il beneficio.
Orbene nel caso in cui intervenga la revoca del beneficio su istanza dell’Agenzia delle Entrate per la mancanza originaria delle condizioni di reddito, la revoca del beneficio ha effetto retroattivo anche sui diritti del patrocinatore o del consulente tecnico ai sensi dell’art. 114, comma 2 in relazione al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 112, lett. d), in quanto la disciplina sul patrocinio a spese dello stato soddisfa un interesse, riconosciuto dalla Costituzione, di natura pubblicistica, il quale persiste per tutto il procedimento e non si attenua a seguito dell’ammissione, di talchè presidia la regolarità dell’intero procedimento e risulta pertanto condizionata alla effettiva permanenza delle condizioni di legge nel corso di tutte le fasi (sez. 4^, 23.3.2015, Piccolo e altro, Rv. 231558-01; sez. 2^, Ordinanza 13.6.2002, Ghidini, Rv. 226312; sez. 4^, 15.1.2014, Orlando, Rv. 259098). Deve infatti convenirsi che la ratio dell’art. 114, comma 2 – con il disporre la revoca con efficacia ex tunc – è proprio quella di impedire all’istante che si è comportato in modo fraudolento di beneficiare, anche parzialmente degli effetti, sia pure derivati (attraverso la liquidazione del compenso al difensore), dell’illegittima ammissione al patrocinio a spese dello Stato, e i pur incolpevoli professionisti (difensore o consulente) devono peraltro rivolgersi all’interessato, che non versava in stato di indisponibilità economica tale da legittimare l’ammissione al beneficio.
Peraltro tale conclusione, che appare condivisa dalla giurisprudenza di legittimità, non implica affatto che la revoca dell’ammissione, oltre a elidere il diritto del soggetto ammesso al beneficio e, di conseguenza del suo difensore a vedersi il primo sollevato, il secondo corrisposto dall’Erario, travolga automaticamente il provvedimento giudiziale di liquidazione. Come sopra anticipato distinte sono le caratteristiche e le finalità dei due provvedimenti. L’ammissione al patrocinio consente al cittadino, che assume di trovarsi in condizione di non abbienza, di fruire, previa ammissione, al contributo economico dello Stato (mediante il meccanismo dell’anticipazione delle spese). La liquidazione operata dal giudice che procede, al culmine delle singole fasi processuali, soddisfa il diritto del difensore a percepire quanto dovuto da parte di chi, al momento in cui la liquidazione viene eseguita, era tenuto ad adempiere la prestazione. La revoca del patrocinio consente all’Erario di opporre al beneficiario già ammesso e, pertanto al difensore di questi, la propria carenza di legittimazione a procedere alla liquidazione; ma una volta che la liquidazione sia intervenuta a favore del professionista difensore, legittimato a riceverla sulla base di un titolo esecutivo inoppugnabile, questa risulta consolidata e non più suscettibile di revoca o di modifica.
A sostegno di una tale inferenza militano ragioni connesse alla natura, alle caratteristiche e al procedimento di formazione del titolo esecutivo liquidatorio, nonchè ad una interpretazione sistematica della disciplina del Testo Unico che si riferisce al procedimento di recupero delle spese eventualmente anticipate dallo Stato in virtù di una ammissione al beneficio poi caducata.
Inoltre il potere di revoca e di modifica del decreto di liquidazione del compenso al difensore o all’ausiliario, oltre a non essere contemplato in nessuna disposizione della disciplina di riferimento (se non nell’ambito o all’esito del procedimento oppositivo), risulta del tutto incompatibile con la previsione (D.P.R. n. 115 del 2002, art. 170) di un termine perentorio concesso alle parti per opporsi al decreto di pagamento. Deve pertanto riconoscersi la estraneità all’assetto del D.P.R. n. 115 del 2002 del conferimento del generale potere di autotutela, tipico dell’azione amministrativa, all’autorità che ha provveduto, soprattutto allorquando il provvedimento di liquidazione abbia esaurito i propri effetti, come nel caso in specie laddove il decreto mandato in esecuzione non sia stato opposto. In relazione poi alla natura e agli effetti del decreto di liquidazione suddetto è intervenuto anche il pronunciamento della Corte Costituzionale che ha statuito che il procedimento di liquidazione dei compensi, in caso di patrocinio a spese dello Stato, presenta carattere giurisdizionale. Per tale ragione non è ammessa la revoca in autotutela dei provvedimenti considerati illegittimi o infondati, dovendosi invece procedere all’esperimento dei mezzi di impugnazione previsti dalla legge, ed altrimenti prendere atto della formazione di una preclusione processuale (salva la eventualità che sia la stessa legge a prevedere la possibilità di revoca). In altri termini i provvedimenti di revoca non restano nella disponibilità del magistrato che li ha emessi, e sono emendabili solo in sede di (eventuale) impugnazione (Corte Cost. 24.9.2015 n. 192).
Orbene se lo stesso legislatore dispone che, in tutte le ipotesi di efficacia retroattiva della revoca del provvedimento di ammissione, il recupero debba intervenire nei confronti dell’imputato, risulta logico inferire, in accordo con le altre norme di sistema che disciplinano il provvedimento di liquidazione del compenso al difensore (e la sua opposizione), che quest’ultimo conservi i caratteri di stabilità ed esecutività che gli sono propri (salvo le eventuali opposizioni sull’an e sul quantum liquidatur presentate dalle parti) anche a seguito della revoca del provvedimento di ammissione al patrocinio a spese dello Stato.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio il provvedimento impugnato.
Motivazione semplificata.
Così deciso in Roma, il 27 marzo 2019.
Depositato in Cancelleria il 16 maggio 2019
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